Markakis trascende l'obiettivo ordinario di concentrare l'attenzione su un solo paese per confrontare le esperienze del Sudan, dell'Etiopia e della Somalia nel XX secolo. Nonostante il titolo del volume, l'autore non ritiene che il nazionalismo e la lotta di classe siano la forza chiave di queste esperienze. Piuttosto, egli ravvisa nell'antagonismo fra città e campagna la questione fondamentale della storia infausta di questi tre Paesi.
In base all'interpretazione data da Markakis dei nazionalisti anticoloniali, questi ultimi non aspiravano "a distruggere ciò che l'imperialismo aveva causato" ma a preservare le privilegiate posizioni politiche ed economiche che essi – i cittadini – avevano raggiunto. Questi sforzi ebbero pienamente successo, come dimostrato dall'incremento costante dei governi centrali postcoloniali. Questi esclusero dallo stato e dall'economia moderna gli abitanti rurali che furono "spinti ai margini del settore coloniale, lasciando che si arrangiassero da soli in una situazione in cui la popolazione era in crescita e le risorse diminuivano". Per esprimere la loro insoddisfazione, gli abitanti delle campagne dovettero ricorrere alla ribellione violenta. Di conseguenza, tutti e tre questi Paesi sono scossi ripetutamente dalle insurrezioni contro lo stato. I ribelli si definiscono in vario modo sulla falsariga della nazionalità, della regione, dell'etnicità, della classe e della religione ma Markakis sostiene che il loro vero comune denominatore sia "l'impotenza accompagnata dalle privazioni materiali e dalla discriminazione sociale". Il suo studio intelligente e deprimente aiuta a comprendere meglio una delle regioni più povere al mondo e a capire altresì il fallimento dello stato post-coloniale in generale.