In uno studio innovativo, due storici del conflitto arabo-israeliano riflettono su come il loro mestiere possa contribuire a stabilire la pace. Essi arrivano alla conclusione deprimente che i metodi ben sperimentati hanno portato al fallimento e che "più i negoziati seguono attentamente i vecchi modelli meno probabilità di riuscita essi hanno. Le speranze di risolvere questo conflitto si basano sulla necessità di tralasciare questi modelli".
Più esattamente, Eisenberg e Caplan rilevano sei considerazioni importanti per raggiungere l'obiettivo: le motivazioni delle parti, il tempismo, la condizione elevata dei partner negoziali, un minimo di partecipazione da parte di terzi, dei termini di accordo ragionevolmente simili e l'assenza di ostacoli psicologici. Alcuni di questi fattori sono di buonsenso, altri più sottili; nel complesso, è interessante vederli analizzati per equilibrare l'esperienza storica.
Solo un errore di valutazione rovina un'analisi per il resto corretta, vale a dire la tendenza degli autori a professare l'equivalenza morale, il che implica che lo Stato democratico d'Israele non è né migliore né peggiore dell'organizzazione terroristica guidata da Yasser Arafat o del regime autoritario governato da Hafez al-Assad. Ad esempio, in un passaggio, gli autori affermano che "i leader arabi e israeliani" hanno lottato contro le ali estremiste del loro elettorato, tanto da far sembrare i coloni cisgiordani la controparte di Saddam Hussein.