Pubblichiamo un'intervista del Foglio, realizzata da Franco Zerlenga, con Daniel Pipes, uno dei più autorevoli esperti americani di Medio Oriente.
Daniel Pipes, già arabista alla Harvard University, è autore di dieci libri sul Medio Oriente. E' direttore del Middle East Forum Institute, con sede a Philadelphia. Il suo ultimo libro, Militant Islam reaches America, è stato pubblicato nel 2002 dalla casa editrice Norton.
La campagna in Iraq è in pieno svolgimento. Come vede, in questo momento, il futuro del paese? "Ho grandi speranze che le truppe americane, insieme ai loro alleati, vinceranno senza grandi difficoltà, e prenderanno seri provvedimenti per riabilitare il paese. Dopodiché, Washington trarrà notevoli vantaggi da questi cambiamenti nell'intera regione. Potremmo trovarci in un momento di svolta costruttiva per il Medio Oriente".
Ha sostenuto, nei suoi interventi e nei suoi studi, che dobbiamo "fare attenzione" all'Islam. Perché, a suo avviso, non l'abbiamo fatto prima d'ora? "Penso che il problema sia consistito nella nostra eccessiva confidenza. Non avevamo paura. Non abbiamo preso il problema sul serio. E non lo facciamo ancora. In parte, è un fatto strutturale. Siamo molto più grandi e più forti. L'Unione Sovietica aveva, grosso modo, una popolazione, un'economia e un servizio segreto simili ai nostri. C'era una corrispondenza. Ma Al Qaida non sembrava un vero nemico".
Molto americani sono ancora inconsapevoli della natura intrinsecamente politica dell'islam. Perché? "Ritengo sia il riflesso di qualcosa di profondamente americano, vale a dire un'incapacità di comprendere il male. E' molto difficile comprendere la natura del male per gli americani, che hanno avuto, per la gran parte, una storia felice. Il padre di John Walker Lindt (il talebano americano fatto prigioniero in Afghanistan), per esempio, non ha capito la questione. E' un fenomeno per noi sconosciuto".
Pensa che l'Amministrazione Bush comprenda la complessità del mondo islamico? "L'islam è un problema relativamente nuovo per il governo degli Stati Uniti, quindi non ha di esso una conoscenza molto profonda. I funzionari, in un certo senso, stanno imparando".
O con noi o contro di noi
Perché, nonostante tutto quello che l'Amministrazione americana sa dell'Arabia Saudita, nessuno sembra disposto a criticarla? Qual è la nostra strategia nei confronti di questo paese? "Credo che dovremmo applicare il concetto di Bush: 'O siete con noi o siete contro di noi'. Bisogna costringere i sauditi a prendere decisioni difficili. I retaggi della cultura dell'intimidazione e della corruzione rendono difficile per le istituzioni statali esistenti affrontare questi problemi con efficacia. Abbiamo una lunga storia di incuranza per il nostro interesse nazionale".
Bush afferma di volere combattere il terrorismo, ma allo stesso tempo riceve nel suo ranch il principe Abdullah, e il suo Dipartimento di Stato tiene gli occhi chiusi sul pessimo atteggiamento saudita nei confronti delle libertà di culto. "Sono sempre stato molto critico con la politica americana per l'Arabia Saudita, anche prima dell'11 settembre. Penso che abbiamo, nei confronti di questo paese, una linea ossequiosa e debole, che non ci permette di difendere i nostri diritti".
Che cosa cambiare nel Dipartimento di Stato? "Il vero problema è questo: i funzionari americani si aspettano che, non opponendosi frontalmente ai sauditi, saranno personalmente ricompensati quando lasceranno il proprio posto di governo. I sauditi cercano di incoraggiare questo convincimento, e così alcuni funzionari hanno in mente gli interessi sauditi più ancora di quelli americani. Il modo per rompere questa pessima tendenza è quello di proibire ai funzionari che trattano con l'Arabia Saudita di ricevere qualsiasi tipo di finanziamento da quel paese".
L'arma demografica
Ma l'idea di uno Stato palestinese è davvero "sbagliata e pericolosa"? "Nel 1993 gli israeliani hanno accettato l'idea di un Arafat diplomatico e statista. In seguito alle violenze cominciate nel settembre 2000, hanno cominciato a cambiare atteggiamento. Il governo degli Stati Uniti, invece, nel 1967 giunse alla conclusione che la vittoria israeliana era stata così schiacciante che gli arabi non avrebbero più avuto l'interesse, né tantomeno i mezzi per fare una guerra; perciò inaugurò una politica che prevedeva la restituzione israeliana di territori in cambio della promessa di pace. Quest'idea è in circolazione da 35 anni, ed è ancora ampiamente condivisa. L'idea opposta, ossia che gli arabi non hanno accettato l'esistenza di Israele e continuano a volerla distruggere, è considerata radicale ed è sostenuta da una piccola minoranza".
Bush ha detto che c'è la prospettiva di uno Stato palestinese nel prossimo futuro. "Gli israeliani, da Peres a Barak a Sharon, hanno detto la stessa cosa. L'idea è che per risolvere il problema bisogna dare a entrambe le parti quello che desiderano. Gli israeliani ricevono Israele, e i palestinesi la Palestina. E' una bella idea. Molto attraente. Non sono contrario, ma non funzionerà, perché i palestinesi non l'accetteranno. I palestinesi vogliono tutto, il che significa che vinceranno tutto o perderanno tutto. La soluzione non è trovare confini giusti; è convincere i palestinesi che non possono vincere. L'attuale politica del governo Sharon è fondamentalmente giusta perché manda un segnale concreto ai palestinesi: il vostro atteggiamento non funziona perché vi allontana dai vostri obiettivi".
Qual è il peso reale dei palestinesi nel mondo arabo? "I palestinesi non hanno molta importanza dal punto di vista economico, militare o culturale. Sono in pochi e sono deboli. Ma sono importanti dal punto di vista politico, perché, se diranno che la battaglia con Israele è terminata, l'impatto su altri interlocutori arabi e musulmani sarà molto grande".
Gli arabi pensano che, nel giro di vent'anni, i palestinesi surclasseranno Israele da un punto di vista demografico. "In effetti è la demografia la vera strategia degli arabi contro Israele. Non è chiaro se si tratterà soltanto degli arabi che vivono all'interno dei confini israeliani anteriori al 1967, o anche di quelli della Cisgiordania e di Gaza, o di altri ancora, ma non c'è dubbio che la straordinaria differenza nel tasso di natalità rappresenta una concreta opportunità per convincere i nemici di Israele che vinceranno semplicemente grazie alla loro superiorità numerica. Un bombardamento con armi nucleari potrebbe distruggere Israele quasi completamente. Potrebbe distruggere anche la Siria, ma la Siria è solo uno dei tanti paesi arabi. Il governo degli Stati Uniti sbaglia a pensare che gli arabi abbiano rinunciato al loro tentativo di annientare Israele".
Che cosa possono fare gli Stati Uniti per fare sì che gli arabi accettino Israele? "Gli Stati Uniti possono fare molto, ma se si concentreranno su questo problema. Fino a ora, invece, non hanno fatto praticamente nulla. Il mio lavoro è in gran parte dedicato a convincere gli americani che la questione dell'esistenza di Israele è ancora il problema numero uno. Lo era prima del 1967, e continua a esserlo anche oggi".
Ma il "nemico" è l'Islam? "Il nemico non è il terrorismo. Non è nemmeno l'islam. Il nemico è la versione terroristica dell'Islam".
L'Arabia Saudita, però, sostiene Hamas, sovvenziona un network mondiale di scuole religiose (madrasa) radicali, disinforma in modo sistematico gli americani e offre denaro alle famiglie dei terroristi. "La risposta alla violenza deve articolarsi in due forme: la prima è combattere il nemico, fermare il flusso di denaro, sconfiggere i nemici sul campo di battaglia; la seconda è cambiare le proprie politiche. L'idea che il nostro nemico sia il terrorismo è del tutto superficiale. E' come dire che il nostro nemico sono le mitragliatrici".
Le cospirazioni di oggi
Qual è la sua opinione sulle posizioni che vengono espresse nei centri di studi mediorientali? "Gli accademici si sono spinti fino alla menzogna. Per esempio, sebbene storicamente il termine 'jihad' abbia sempre significato 'l'estensione con la forza del territorio controllato dall'islam', questi studiosi lo negano. Ho fatto uno studio su ciò che dicono ai mezzi di informazione, e su ciò che scrivono. Praticamente senza eccezioni, sostengono che il jihad non ha niente a che fare con la violenza o che si tratta di una violenza esclusivamente difensiva. Questo è del tutto falso. E' una rinuncia alle proprie responsabilità. Ho creato un sito web, 'campus-watch.org', con lo scopo dichiarato di criticare gli accademici e di spronarli a migliorarsi".
Ha scritto un libro sulle cospirazioni. Quali sono le principali "conspiracy theories" oggi in circolazione? "La più nuova è, in verità, la teoria dell'anti globalizzazione. E' una forma della cospirazione capitalista, ma con questa nuova caratteristica della globalizzazione. Poi c'è il complotto anti-ebraico, che proviene soprattutto dal mondo musulmano. Mi colpisce vedere come le fobie europee delle società segrete e degli ebrei siano stati trasformati tra i musulmani nella paura degli imperialisti, in primo luogo inglesi, americani e israeliani. E' un insulto per tutti, perché gli europei hanno avuto queste idee che non esito a definire stupide, e ora i musulmani le prendono da loro. I Protocolli di Sion sono stati tradotti molte volte in arabo. Sembra quasi che i musulmani non siano capaci di pensare da soli le proprie idee, e che debbano andare a prenderle dagli europei. I musulmani hanno reintrodotto queste idee in Europa e negli Stati Uniti".
Alcuni pensano che, in sostanza, in Europa l'antisemitismo è finito perché la Chiesa cattolica ha mutato atteggiamento fin dal Concilio Vaticano Secondo nel 1964. "L'antisemitismo si è ridotto fin quasi a scomparire, ma ora sta risorgendo, soprattutto in Francia. Anche l'Italia è un caso molto interessante, perché in questo paese si sono alzate voci autorevoli, che non si sono invece sentite in Francia. Non si sentono in Inghilterra o in Germania, ma in Italia sì. Ed è un fatto degno di nota".