Ibrahim, docente di sociologia e direttore del Centro Ibn Khaldun per gli studi sullo sviluppo, al Cairo, si presenta come una delle voci analitiche più innovatrici, coraggiose e interessanti del Medio Oriente. Egli suscita continue discussioni e polemiche e crea dei problemi affermando ciò che agli occidentali può sembrare evidente, ma che è molto controverso nei Paesi arabi: ad esempio, Ibrahim sostiene che la minoranza copta che vive in Egitto è oggetto di discriminazioni, che le mutilazioni genitali femminili andrebbero interrotte, che i negoziati di pace di Anwar Sadat sono stati un successo e che i Paesi arabi spendono troppo in armamenti e non abbastanza per i programmi sociali. A differenza di parecchi analisti arabi, Ibrahim non si preoccupa dello sterile conflitto arabo-israeliano, ma di fornire una partecipazione politica e uno sviluppo economico alla sua regione.
Vista la sua visione sensata delle cose, sgomenta dunque vedere come l'autore fraintenda spesso i fatti elementari. In un capitolo che tratta della diversità etnica nei Paesi arabi, egli commette degli errori numerici (236 milioni di arabi non costituiscono l'8 per cento della popolazione mondiale, ma quella percentuale è data dalla metà di quella cifra), errori cronologici (si sbaglia tanto sulla data della guerra civile libanese quanto della guerra fredda), errori storici ("i gruppi etnici nel mondo arabo rimasero per lungo tempo riluttanti e scettici" sulle offerte europee di patrocinio del XIX secolo?), errori geografici (includere la partecipazione di Israele a un tavolo sul mondo arabo?) ed errori politici (le potenze straniere beneficiano attualmente di "un'egemonia" sul Medio Oriente?). Se l'autore si fosse preso un po' di tempo e avesse fornito un'analisi più attendibile, le sue importanti conclusioni avrebbero ancora più valore.