La buona volontà della Feste è evidente come la sua ignoranza in merito al conflitto arabo-israeliano. Specialista della "strategia d'intervento nelle questioni mondiali", l'autrice si occupa delle relazioni arabo-israeliane perché ciò "offre un'introduzione interessante e appassionante alla politica internazionale". La sua opera precedente include due studi sui negoziati fra gli arabi e Israele: uno sui giochi del decisionismo, l'altro su un esercizio di simulazione della politica pubblica. La sua tecnica consiste nel fare appello alla teoria della percezione, alla teoria del negoziato e alle teorie del potere, per poi combinare queste ultime con i dati empirici del comportamento e dei piani reali nella speranza di avere nuove idee su come far avanzare il processo negoziale. Fin qui, tutto bene.
Il problema è che la Feste non comprende la natura del conflitto arabo-israeliano. Lei lo considera una lotta bilaterale fra le due parti, i palestinesi e gli israeliani, senza così disporre dell'elemento che rende tale questione talmente difficile da risolvere: la moltitudine di richiedenti da parte araba. Contro ogni evidenza, la Feste definisce gli arabi un gruppo "religioso ed etnico a sé stante", il che implica che tutti condividono il punto di vista palestinese. Il volume Piani di pace non fa menzione alcuna del governo siriano e parla molto poco di quello iracheno, giordano o egiziano, come se queste entità potenti fossero dei semplici spettatori del dramma di qualcun altro. Questo ha senso quasi quanto ignorare Hanoi in uno studio sulla guerra del Vietnam o escludere Managua da un'analisi dell'insurrezione di El Salvador. La lezione è chiara: prima di ogni altra cosa, un teorico deve immergersi nei fatti di uno studio analitico.