McCarthy rivela un fatto orribile e assai importante: durante il secolo che va dalla guerra d'indipendenza greca alla Prima guerra mondiale, l'Impero Ottomano ha conosciuto cinque milioni e mezzo di morti e cinque milioni di rifugiati. Egli ritiene che queste perdite demografiche (morti e profughi) siano superiori a quelle della guerra dei Trent'anni. Le tribolazioni dei cristiani in questa epoca e in questa regione sono ben note; McCarthy mostra l'altro aspetto: "le comunità musulmane presenti in un'area geografica vasta come tutta l'Europa occidentale sono state ridotte o distrutte". Il suo studio esamina minuziosamente le regioni e le guerre, traendo informazioni dalle fonti straniere e ottomane al fine di produrre una spiegazione irrefutabile.
Al di là della tragedia in sé, questo schema di morte e di esilio ha una profonda importanza storica. Si prendano solo tre questioni sollevate dall'autore. Egli mette in prospettiva la deportazione degli armeni del 1915 e trasforma questo atto causato dall'odio in un'azione dettata dalla paura (se gli armeni, con l'appoggio dei russi, si fossero ribellati, i musulmani ottomani potevano aspettarsi di essere massacrati). Inoltre, questo retaggio spiega la politica estera modesta e cauta perseguita da Atatürk: "come terra di rifugiati arrivati di recente e che ha conosciuto una forte mortalità", il suo Paese non era pronto ad affermarsi, ma a riformarsi. Infine, l'immigrazione massiccia verso l'Anatolia implica che la Turchia moderna è (come la Francia) una terra di emigranti; McCarthy stima che un quinto della popolazione discende dai rifugiati del XIX secolo. Questo aiuta a comprendere la grande sensibilità mostrata dal Paese verso i problemi attuali in Bosnia e in Azerbaijan.