Huband, corrispondente al Cairo del Financial Times, ha scritto quello che probabilmente è il peggiore libro sull'islamismo di cui è autore un giornalista, uno di quei volumi che ha lo svantaggio di essere al contempo apologetico, fuorviante e superficiale. In parte, la colpa è da attribuire all'indicibile ignoranza dell'autore, come indicato dai grossolani errori di fatto (come ad esempio, sostenere che gli ordini sufi ebbero origine nel VII secolo, quando in realtà apparvero per la prima volta nel XII secolo); ma gli errori di fatto sono un problema minore in confronto alla profonda mancanza di giudizio.
Eccone un piccolo saggio: per giustificare l'Egitto come un "esperimento dinamico" e il Cairo come una città che vive "in armonia", Huband si pone questa domanda idiota: "Quanti ministri musulmani ci sono nei governi occidentali? Pochi. Ma nel governo egiziano, la minoranza cristiana copta è rappresentata" – il che implica in modo stupido che la popolazione copta vecchia e oppressa sta meglio degli immigrati musulmani che si recano volontariamente in Occidente. Oppure questa cosa stupefacente: "L'attentato del 18 settembre 1997, in cui due fratelli al grido di "Allah Akbar" ("Dio è Grande") lanciarono una bottiglia Molotov in un autobus che trasportava turisti tedeschi nel centro del Cairo, è stato un atto di fede religiosa? Ovviamente no". E allora ci si potrebbe chiedere che cosa sia stato.
Combinate questa analisi lacunosa con le lunghe citazioni degli islamisti, unitamente allo stile pomposo che contraddistingue l'autore ("Pennacchi di fumo dall'incenso che brucia salivano in spirali nel cielo grigio-blu pallido del pomeriggio, come la magnifica fiamma rossa del sole proietta le ombre dei cantanti e dei ballerini sulla roccia dura e sulla sabbia del cimitero. Giovani alberi secchi e nodosi stanno immobili […] ) e la combinazione è troppo pesante da sopportare. Questo è un libro che tutti dovrebbero evitare di leggere.