La brusca uscita di Ross Perot dalla campagna presidenziale del 1992 può rallegrare George Bush e Bill Clinton, ma lascia l'elettorato con una opzione in meno. In che modo ora dobbiamo fare qualcosa per l'impasse di Washington? Rimanendo a casa il giorno delle elezioni? Scegliendo Norman Schwarzkopf? In realtà, la soluzione è più semplice di questa e assai meno originale: bisogna votare la linea del partito.
Non c'è dubbio che l'elettorato è assai scontento di Washington. Si consideri quanto segue:
- Gli indici di gradimento di George Bush sono bassi come per Richard Nixon durante lo scandalo del Watergate; poco più di un anno fa, lui godeva degli indici più elevati mai registrati per qualsiasi altro presidente oggetto di sondaggi.
- Non meno di cinque outsider – David Duke, Pat Buchanan, Paul Tsongas, Jerry Brown e Perot – hanno partecipato alla campagna elettorale del 1992, e ognuno di loro ha avuto un momento di gloria.
- L'indice di gradimento del Congresso è sceso ai minimi record e il 1992 può stabilire un primato per il numero di rappresentanti che non cercano di essere rieletti; meno di due anni fa, quando gli esperti lamentavano che il 98 per cento dei membri del Congresso cercava di non perdere il proprio seggio.
Dietro questo malcontento si cela la situazione di stallo a Washington: non si fa quasi niente. Se i sondaggi mostrano che l'elettorato americano accusa i politici di questo triste stato di cose, il problema in realtà è da imputare al comportamento dell'elettorato piuttosto che ai politici. E riguarda l'abitudine apparentemente innocua di dare contemporaneamente il voto a candidati di liste diverse, di scegliere i repubblicani come inquilini della Casa Bianca e i democratici alla presidenza del Congresso. Infatti, se i repubblicani hanno vinto cinque delle ultime sei elezioni presidenziali, dal 1954 i democratici controllano una o entrambe le Camere del Congresso.
Questo è un fenomeno nuovo. Fino agli anni Cinquanta, ogni presidente, a partire da Lincoln, ha goduto del vantaggio che il suo partito potesse controllare una o entrambe le camere del Congresso almeno una volta nel corso del suo mandato; le amministrazioni più ammirate (Jefferson, Jackson, Lincoln, Roosevelt e Kennedy) hanno potuto avere un continuo controllo del Congresso da parte dei loro partiti. Al volgere del secolo, gli elettori mantenevano la fedeltà al partito; meno del 5 per cento dei distretti congressuali divideva il proprio voto tra due liste di candidati alla presidenza Usa e a quella del Congresso. Dopo la Seconda guerra mondiale, tuttavia, questa prassi si diffuse rapidamente, così che quasi la metà dei 435 distretti del Paese ha diviso il proprio voto nelle recenti elezioni. Nel 1988, ad esempio, l'ottavo distretto congressuale della contea dei Bucks scelse George Bush come presidente Usa e il democratico Peter Kostmayer al Congresso. In modo simile, il terzo distretto congressuale del Northeast Philadelphia votò per Bush e per il democratico Robert Borski.
La Costituzione ha stabilito un sistema di governo in cui il potere è diviso fra tre rami distinti: legislativo, esecutivo e giudiziario. L'elettorato americano ha creato un proprio controllo ed equilibrio dei poteri separando i rami governativi a seconda delle diverse linee dei partiti. A differenza della divisione originale, questa non funziona. Piuttosto conduce a un punto morto. Nessuno dei due partiti può approvare le proprie iniziative, né il presidente né il Congresso possono governare.
Piuttosto, i politici si fanno ininterrottamente guerra utilizzando spiacevoli tattiche come spot televisivi diffamatori, inquisizioni pubbliche (come Anita Hill contro Clarence Thomas), fughe di informazioni riservate pubblicate dalla stampa e incriminazioni penali (come quella di Caspar Weinberger. Il disgusto pubblico è una conseguenza naturale.
Nessun outsider,e nemmeno un bravo miliardario, potrebbe risolvere questo problema. Per tutta la sua bravura a calpestare il Congresso, Perot avrebbe dovuto mettersi d'accordo con i repubblicani e i democratici al Congresso. Incapace di fare affidamento sul suo stesso partito al colle del Campidoglio, sarebbe stato ancor più ostacolato di Bush e sarebbe sprofondato nella guerra politica che già paralizza Washington.
Mentre i due maggiori partiti sono diventanti troppo deboli e verbosi per mantenere la prassi della fedeltà al partito dei decenni passati, conservano però delle identità distinte. Riguardo alla politica di difesa, ad esempio, i repubblicani sono pronti a usare la forza, i democratici no. Sulle questioni economiche, i repubblicani sono orientati verso un'economia di mercato mentre i democratici sentono il richiamo dell'intervento governativo. I repubblicani incarnano il conservatorismo sociale, i democratici la sperimentazione. Gli uni interpretano la Costituzione alla lettera, gli altri la guardano in senso figurato. In altre parole, i partiti hanno identità distinte.
Gli elettori che desiderano "mettere a posto le cose a Washington" dovrebbero smettere di dare contemporaneamente il voto a candidati di liste diverse e votare per i partiti piuttosto che per i personaggi. Se piace la filosofia democratica, si voterà per Bill Clinton e per il candidato democratico locale per il Congresso. Se si preferiscono i repubblicani, allora si darà al presidente Bush un Congresso repubblicano per attuare il suo programma.
Ripristinare la partigianeria al voto avrebbe l'effetto paradossale di rendere il governo meno partisan e più produttivo.