Prima della rivoluzione iraniana, Mozaffari era stato a capo del Dipartimento delle relazioni internazionali all'Università di Teheran; ora vive nella lontana Danimarca. Anche se presentato come uno studio generale di fatwe (opinioni non-vincolanti in merito a delle questioni della legge islamica), questo libro è in larga misura un'espressione della rabbia (comprensibile) dell'autore verso Khomeini e i suoi accoliti per la distruzione, il discredito e la violenza che hanno recato al suo paese natale. In una presentazione tortuosa, Mozaffari mostra come loro abbiano trasformato lo sciismo da tradizione tranquillissima a una radicalizzata, come lo stesso Khomeini avesse una personalità da "necrofilo", e così via. Il titolo del volume dovrebbe essere qualcosa come "La rivoluzione iraniana: riflessioni dall'esilio".
Un argomento, tuttavia, emerge: l'analisi di Mozaffari dell'editto di Khomeini emesso contro Salman Rushdie, in cui lui afferma in modo convincente che Khomeini non considerava questa dichiarazione una fatwa (si è limitato a fare un'allusione fugace a essa come tale) e di fatto l'editto non corrisponde in molti modi all'immagine tradizionale di una fatwa: non era una risposta a una domanda, non era scritto a mano, non era firmato né sigillato, e come governante del suo Paese, a Khomeini era stata preclusa la possibilità di emettere una fatwa. Mozaffari osserva che nelle notizie del giorno dopo, i media iraniani hanno parlato del "messaggio" (payam) di Khomeini, e asserisce che "nessuno in Iran ha utilizzato il termine fatwa nel riferirsi alla condanna emessa da Khomeini". Mozaffari sostiene che sono stati due studiosi francesi di Islam, Olivier Roy e Gilles Kepel, a tirar fuori il termine fatwa, in seguito ripreso da altri.
Mozaffari mostra poi che Khomeini "ha infranto le regole" chiedendo la morte di Rushdie e conclude dicendo che l'editto non aveva alcun valore giuridico neppure in Iran: "Il suo decreto era nullo dal momento in cui è stato pubblicato".