La trascrizione di una tavola rotonda con Andrew McCarthy, Douglas Murray, Daniel Pipes, e Michael Totten, moderata da Mark Tapson il 18 novembre 2011, al David Horowitz Freedom Center.
Daniel Pipes: Undici mesi fa, tra qualche giorno, una farfalla sbatteva le ali in una cittadina della Tunisia, un centro di 40.000 anime, quando una poliziotta schiaffeggiò un venditore ambulante di frutta. Finora, tre despoti sono stati rovesciati, e altri due – quello siriano e quello yemenita – stanno per essere destituiti. In modo del tutto imprevedibile. Col permesso del nostro moderatore, preferirei non parlare delle cause delle rivolte [arabe] del 2011, dei loro sviluppi e del significato che esse rivestono per il Medio Oriente. Piuttosto, concentrerò l'attenzione sulla politica americana.
La nostra politica nei confronti di questi sconvolgimenti è stata incoerente, per non dire altro. Abbiamo applaudito le dimissioni di Hosni Mubarak in Egitto e siamo rimasti a guardare molto compiaciuti come i sauditi abbiano sedato una rivolta in Bahrein. Abbiamo usato la forza contro il despota in Libia e non abbiamo fatto nulla del genere in Siria.
Questa incoerenza riflette molto più del riconosciuto dilettantismo, della miopia e dell'incompetenza dell'amministrazione Obama. Esprime qualcosa di più profondo: un dilemma che la politica estera americana si trova ad affrontare in Medio Oriente. Come ho scritto in un recente articolo, noi non abbiamo amici in Medio Oriente. Abbiamo pochi alleati.
E il dilemma è il seguente: i despoti che noi come americani non possiamo prendere in simpatia, sotto i cui regimi non vorremmo mai vivere, che impongono ordini militari eseguiti da pericolosi servizi d'intelligence – ebbene, quei despoti sono malleabili, sono privi di ambizioni mondiali. Vogliono godersi la bella vita. Vogliono che i divi di Hollywood partecipino alle loro feste di compleanno. Vogliono tenere le tigri nei loro giardini come fossero animali da compagnia. Vogliono le cose più belle che Parigi possa offrire.
Non costituiscono una minaccia per noi. In genere, con le dovute eccezioni, loro non sono una minaccia per noi. Impediscono a milioni di persone di vivere comodamente. La riteniamo una cosa disdicevole, ma non costituisce una minaccia per noi.
Di contro, i democratici – gente per cui proviamo ovviamente simpatia – sono, di fatto, i nostri peggiori nemici. Lo abbiamo visto in Tunisia, in Egitto: e lo vedremo anche altrove. Le cose stanno così dal 1991, si pensi alle elezioni in Algeria. Dovunque si guardi, sono gli islamisti le persone che ci sono maggiormente ostili, che rappresentano un'utopica visione ideologica del futuro, che cercano, dopo i fascisti e i comunisti, di creare un uomo nuovo.
Sono gli islamisti quelli popolari, che sono organizzati, che toccano qualche corda che risuona nelle popolazioni arabe, che hanno i soldi, che dispongono di fedelissimi, che hanno anni, se non decenni, di esperienza, che fanno parte di una rete internazionale, che hanno diversi mezzi per accedere al potere – in alcuni casi attraverso la Nato, in altri attraverso le urne elettorali, come per esempio in Turchia; in altri ancora attraverso la rivoluzione, come in Iran; e anche mediante i colpi di stato, come in Sudan. Ci sono molti modi diversi per arrivare al potere. Ma la democrazia è quello più importante. E vediamo che ottengono la maggioranza relativa, se non quella assoluta, paese dopo paese. E questo perché essi rappresentano qualcosa: l'integrità e una visione del futuro.
Questo è dunque il dilemma. Quelli con cui possiamo lavorare ci disprezzano. Le persone che noi ammiriamo ci sono ostili. Il che rende molto difficile avere una politica. Suggerirei tre linee guida per la politica.
Innanzitutto, opporsi sempre agli islamisti: è chiaro e semplice. Sempre e ovunque. (Applausi) Anche quando arrivano al potere in modo legittimo, come in Turchia. Avrete notato che il nostro Presidente non più tardi di una settimana fa ha abbracciato il loro premier. Non si fa. (Risate) È facile. Bisogna essere sempre contro gli islamisti.
In secondo luogo, occorre appoggiare quei pochi elementi eloquenti – tendenti ad essere giovani, moderni, liberali e laici – che sono dalla nostra parte, la cui esistenza oggi ci è più chiara rispetto a un anno fa. Tahrir Square è il loro simbolo. Loro esistono. Ma non hanno nessuna opportunità di arrivare al potere. Non mobilitano le masse, non controllano le baionette. Forse, un giorno, saranno i nostri partner. Ma non dovunque – almeno in un futuro prossimo – ad eccezione dell'Iran, dove potrebbero arrivare al potere. Ma in genere occorre aiutarli. Migliorare la loro vita, festeggiarli, incoraggiarli, senza sperare che prenderanno il potere.
E poi, alla fine, e questa è la cosa più difficile, bisogna occuparsi degli stessi despoti. Lavoreremo con loro per migliorarli. Non saranno mai i nostri amici. Ma l'Occidente intero, non solo gli Stati Uniti, può lavorare su di loro per migliorarli. Non è una politica eccitante, non è allettante, ma è una politica pragmatica. Se avessimo trascorso gli ultimi trenta anni a spingere Mubarak, lui sarebbe potuto finire nel 2011 in un posto molto diverso da quello in cui si è trovato. Ma non lo abbiamo fatto. Ci sono stati degli sforzi discontinui per migliorare il regime egiziano, ma è rimasto una dittatura militare messa in atto da uno stato di polizia. E noi siamo rimasti a guardare e abbiamo accettato.
Pertanto, io credo che in un certo modo – sempre opponendoci agli islamisti, sempre aiutando I nostri amici: i laici liberali; e in modo ponderato, cauto e soppesato, spingendo i despoti nella giusta direzione – noi potremo avere una politica estera in Medio Oriente coerente e forse anche di successo. (Applausi)
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Domanda: Perché invitare [in Occidente] quelle stesse persone che giurano di avvilirci? Credo che sia forse ingenuo pensare che non ci sia un piano. Si vuole da qualche parte permettere di minare le basi della civiltà occidentale.
Daniel Pipes: Credo che ci sia un motivo: ossia che la sinistra è sostanzialmente critica di quello che è la civiltà occidentale. E più a sinistra si va, più la sinistra è critica. Gli islamisti sono critici della civiltà occidentale. Ora lo sono da un differente punto di vista e per ragioni e scopi diversi. Ma sono le truppe della sinistra di questi tempi.
Domanda: C'è qualcosa che gli Stati Uniti possono fare in questo momento per evitare che i Fratelli musulmani prendano il potere in Egitto, diventando un'altra teocrazia come l'Iran?
Daniel Pipes: Che cosa possono fare gli Stati Uniti per evitare che gli islamisti prendano il potere in Egitto? In realtà, non credo che dobbiamo fare molto.
Per quel che ne so, in Egitto c'è stata una rivoluzione nel 1952 che ha rovesciato una monarchia costituzionale e poi sono arrivati i militari. Innanzitutto, Naguib fino al 1954, poi Abdul Nasser fino al 1970, Sadat fino al 1981, Mubarak fino al 2011. E ora, signore e signori, Mohamed Hussein Tantawi è il nuovo sovrano dell'Egitto. Non può definirsi presidente – è solo il feldmaresciallo, il capo del Consiglio supremo delle forze armate e il ministro della Difesa – ma non è il sovrano dell'Egitto.
Più in generale, l'esercito egiziano e i suoi militari, che governano oramai da quasi sessant'anni, sono i governanti dell'Egitto. Essi conducono, come ho detto prima, una vita comoda. Essere un colonnello dell'esercito egiziano significa essere una persona molto felice. Si fa una bella vita. L'esercito egiziano controlla una parte consistente dell'economia egiziana, che produce di tutto dalla carta velina agli armamenti. L'esercito intende rimanere al potere. Anche oggi è uscito un articolo del New York Times su come l'esercito intenda rimanere al potere e come si stia destreggiando per farlo.
Il presidente, chiunque sarà, non sarà una figura insignificante, ma nemmeno determinante. Lui aiuterà a calcolare i bilanci delle scuole e a capire che le strade devono essere riparate, e anche altri compiti non-irrilevanti. Ma non sarà il sovrano dell'Egitto.
L'unica sfida per i militari sarà la presenza degli islamisti nell'esercito e nelle forze armate. Ci riusciranno? È la prova militare contro i Fratelli musulmani o no? Non è come per l'esercito turco – che al suo interno è fermamente e apertamente contrario agli islamisti. Un aneddoto dalla Turchia: nelle mense degli ufficiali vengono serviti alcolici. Se non si beve vino, non si fa parte del corpo ufficiali. Di solito succede questo. Non è così in Egitto. [Nelle forze armate] ci sono gli islamisti. Anzi, Anwar Sadat è stato ucciso dagli islamisti presenti nelle forze armate.
Non posso garantirvi che ne staranno fuori. Ma questa è la chiave. Non credo che ciò riguardi troppo la politica americana. È una relazione interna, militare e civile. È interna all'esercito. E tutto quello che possiamo fare è vigilare e vedere se l'esercito impedisce agli islamisti di infiltrarsi nel corpo ufficiali e diventare una forza significativa al suo interno.
Domanda: Secondo lei, cosa dovremmo fare in futuro?
Daniel Pipes: Aiutare l'opposizione iraniana a rovesciare i mullah. (Applausi)
Domanda: La cosa più allarmante alla quale abbiamo assistito è vedere come Grover Norquist si sia insinuato nel cuore del Partito repubblicano.
Daniel Pipes: Cosa fare di Grover Norquist? Beh, lui è solito partecipare a incontri come questo: ma non lo farà più. E questo perché Frank Gaffney ha scritto su di lui un articolo di denuncia pubblicato da FrontPage Magazine. (Applausi) Più in generale, credo che sia simbolico il fatto che l'appoggio di Grover Norquist agli islamisti sia impopolare negli ambienti conservatori. Lui è una figura importante. Ma ha fatto pochi proseliti. C'è solo una manciata di conservatori che è d'accordo con Norquist. È un'anomalia e non è qualcosa che conquista il Partito repubblicano. Ad esempio, si guardi ai candidati repubblicani alla Casa Bianca. Nessuno di loro, in qualche modo, riflette le sue opinioni. Vorrei che lui cambiasse, che pagasse un prezzo nella sua carriera per questo. Di certo, se non è venuto qui sta già pagando un prezzo. Ma non credo che sia un grande pericolo.