I quattro morti israeliani caduti in Libano la scorsa settimana si possono considerare atipici – un generale di brigata, un giornalista e due soldati – anche se non differenti dalle precedenti 897 vittime israeliane uccise in quel paese. Ognuno di loro ha perso la vita nell'ambito del tentativo da parte dello Stato ebraico di "cordonare" se stesso dalla violenza proveniente dal suo vicino settentrionale. Eppure, questi quattro caduti sembrano aver toccato un nervo scoperto nella nazione israeliana, indicando che gli israeliani stanno affrontando una crisi non dissimile da quella vissuta negli Stati Uniti durante la guerra del Vietnam e, più indietro nel tempo, in Gran Bretagna durante la guerra anglo-boera.
In una pubblicità molto nota di un importante quotidiano di Tel Aviv, il padre di un soldato ventunenne di stanza in Libano fa un drammatico appello al premier Benjamin Netanyahu per un ritiro unilaterale di tutte le forze israeliane dal confine. "Non desidero che mio figlio sia un eroe, voglio che torni a casa il sabato". La madre di un'altra recluta ha detto ai media: "Adesso basta, non abbiamo più forza per questo". Le "Quattro Madri", un movimento pacifista di genitori, ha il solo scopo di convincere il governo israeliano a riportare a casa i ragazzi.
Ma non sono i genitori, gli unici israeliani a essere sentimentali. Un sondaggio condotto dalla Dahaf la scorsa settimana ha rilevato che per avere pace e tranquillità al confine libanese, il 75 per cento degli israeliani è favorevole a un ritiro parziale delle loro truppe dalle alture del Golan (un territorio prezioso preso alla Siria nel 1967). I politici muovono delle critiche a questo disfattismo: anche la scorsa settimana il leader dell'opposizione israeliana, un ex-generale altamente decorato di nome Ehud Barak, ha promesso un ritiro incondizionato delle truppe israeliane dal Libano nel giro di un anno nel caso di una sua vittoria elettorale a maggio.
Per il mondo esterno, questo stato d'animo di debolezza e pacificazione può sorprendere perché Israele ha una meritata fama di temerarietà e di eroismo. Le sue forze armate hanno compiuto alcune delle azioni più spettacolari di spionaggio e di controterrorismo del nostro tempo; la sua popolazione si è guadagnata grande ammirazione per sopportare le difficoltà di una vita sotto assedio: ogni cosa, dai bambini che dormono nei bunker sotterranei al servizio di riserva per gli uomini che continua fino alla mezza età.
Ma la reputazione eroica di Israele è tristemente fuori moda. Come i recenti sviluppi dimostrano, gran parte della sua popolazione ora pone la massima priorità nella necessità di evitare scontri e violenze. Un Paese di recente prospero che gode di un reddito pro-capite paragonabile a quello dell'Italia preferisce i piaceri della vita alle noiose esigenze della guerra con gli arabi.
In termini pratici, questo significa che le Forze di difesa israeliane magnificamente equipaggiate non possono competere con le truppe irregolari libanesi di Hezbollah. Gli armamenti superiori e le strategie intelligenti non riescono a superare la debolezza irriducibile d'Israele: mentre Hezbollah vuole la vittoria ed è pronto a pagare il prezzo più alto per questo, molti israeliani aspirano solo a tornare a casa tutti interi. Questa debolezza non è unicamente legata al problema del Libano. Tra gli altri sintomi della demoralizzazione israeliana spiccano:
- Il disfattismo nei confronti dei palestinesi. I sondaggi mostrano diffusamente che l'80 per cento degli israeliani vuole portare avanti il "processo di pace", anche se Yasser Arafat e l'Autorità palestinese mostrano poca disponibilità a vivere in armonia con Israele. Come per il Libano, gli israeliani chiedono di essere lasciati in pace da un nemico che cerca di distruggerli.
- Paura del terrorismo. Anche se Netanyahu ha costruito la sua carriera politica sulla dura lotta al terrorismo, quando ha avuto, di fatto, la possibilità di estradare Musa Abu Marzook, un leader di Hamas, da un carcere di New York, ha preferito prendere accordi per far risiedere Marzook (che può così organizzare più azioni terroristiche) ad Amman, in Giordania.
- L'antisionismo tra l'elite israeliana. Barak, il leader del Partito laburista, ha dichiarato che se fosse un giovane palestinese sarebbe un terrorista che lotta contro Israele. Si è sviluppata un'intera scuola di pensiero che incolpa lo Stato ebraico del conflitto arabo-israeliano. La Gazzetta ufficiale del Paese pubblica una poesia che termina con l'eroe "che si abbassa i pantaloni e piscia sul falò quasi spento del sionismo".
Gli arabi notano questa crisi di fiducia e cominciano a sfruttarla. Poco dopo che le truppe israeliane gli avevano ucciso il figlio, Hasan Nasrullah, leader di Hezbollah, ha replicato a un giornalista scettico che gli ha chiesto se Hezbollah volesse sfidare direttamente Israele. No, ha risposto Nasrullah, non è così, e i suoi commenti meritano una lunga citazione:
Non mi sembra che lei sia attento a ciò che accade (…) Come interpreta il comportamento sionista dopo ogni sconfitta militare nei territori occupati nel sud del Libano? Le lagnanze nella società sionista non possono essere più ignorate. Netanyahu ha detto di recente: "Sono pronto al ritiro dal Libano meridionale, se qualcuno mi garantisce che Hezbollah non ci seguirà nel nord d'Israele". Basti pensare al significato di queste parole, che arrivano da un premier di quella che è considerata come una delle più grandi potenze militari della regione. (…) Netanyahu non vuole più un accordo di pace con il Libano. Non vuole più una zona di sicurezza, chiede solo di essere lasciato in pace.
Una svolta del genere potrebbe essere giunta durante la guerra del Golfo quando Saddam Hussein ha coraggiosamente lanciato missili contro Israele, e quest'ultimo, su insistenza degli Usa, non è riuscito a reagire. La situazione attuale in Libano simboleggia e peggiora la demoralizzazione dello Stato ebraico. Se il Paese non riscopre la sua anima sionista – non asserendo "Adesso basta!" ma "Mai più!" – andrà incontro a seri guai.
In particolare, se le truppe israeliane si ritireranno dal Libano, Hezbollah e gli altri strumenti dell'aggressione siriana volgeranno le loro armi contro Israele. Quando nelle città del nord della Galilea aumenterà il numero di vittime civili (e negli ultimi anni è stato quasi irrilevante), gli israeliani torneranno a imparare la vecchia lezione che rabbonire i tiranni non funziona. Invece di ritirarsi dal Libano, gli israeliani farebbero meglio a trarre insegnamento dai turchi. Di fronte a una campagna terroristica non diversa da quella che affronta Israele, l'autunno scorso Ankara ha fatto pressioni sul governante siriano, Hafez al-Assad, minacciandolo di invadere il Paese se non si fosse comportato bene. Nel giro di pochi giorni, il dittatore di Damasco ha ceduto. È il tipo di lezione che molti di noi hanno imparato nel cortile della scuola. Offre un modello semplice e utile anche per gli israeliani.