Le continue speranze di indire una conferenza di pace internazionale mettono in luce che, sebbene l'epoca di Anwar Sadat, Menachem Began e di Jimmy Carter sia da molto tempo finita, il retaggio del loro "processo di pace" continua a essere rilevante. Molti alti funzionari del governo israeliano e americano considerano l'obiettivo di far partecipare ufficialmente ai negoziati di pace gli arabi e gli israeliani come il loro contributo più importante alla politica mediorientale.
In apparenza, questa sembra un'idea ineccepibile: quale persona di buonsenso potrebbe opporsi ai tentativi volti a far sì che i nemici si siedano insieme al tavolo negoziale? Ma uno sguardo più attento rivela che il processo negoziale è ormai obsoleto. Il cieco perseguimento di quest'obiettivo può, paradossalmente, destabilizzare i rapporti arabo-israeliani.
Oggi, il processo di pace significa una cosa sola: un accordo formale e pubblico tra Israele e la Giordania (con i palestinesi rappresentati dalla Giordania). Non può riferirsi a nessun'altra cosa. L'Egitto, che era solitamente il perno della diplomazia mediorientale, ha abbandonato il proprio ruolo dalla firma del trattato con Israele del 1979. Il Libano non ha un governo e non può partecipare ai negoziati. La Siria rifiuta ogni assetto a lungo termine di Israele. Dei partecipanti diretti ai negoziati, solo la Giordania e i palestinesi continuano a essere i possibili interlocutori di Israele.
Ma la passata esperienza dello Stato ebraico con l'Egitto evidenzia che le conseguenze di un accordo formale non sarebbero del tutto vantaggiose per Gerusalemme, per la Giordania e per i palestinesi. Per capirne i motivi, bisognerebbe guardare all'impressionante contrasto tra i pessimi rapporti dell'Egitto con Israele e i legami migliori che intercorrono tra la Giordania e lo Stato ebraico.
Dalla firma del trattato di pace tra l'Egitto e Israele, il primo ha ridotto al minimo i contatti con il secondo. Quasi nessun egiziano visita lo Stato ebraico, l'interscambio culturale è trascurabile e il commercio si limita alla vendita di petrolio da parte dell'Egitto prevista dal trattato di pace.
Il governo egiziano sfrutta i disaccordi – come ad esempio il raid israeliano contro il quartier generale dell'Olp in Tunisia – come una scusa per ridurre i legami con Israele. La stampa cairota lancia attacchi antisemiti volti a provocare la rabbia israeliana. La disputa sulla piccola enclave di Taba va avanti da anni, erodendo la buona volontà da entrambe le parti. Le relazioni sono peggiorate fino al punto in cui le autorità egiziane si sono a malapena incomodate a investigare sul massacro di sette turisti israeliani – di cui quattro bambini – perpetrato nell'ottobre 1985 da un soldato in divisa nel deserto del Sinai. Gli israeliani hanno ben definito i rapporti con l'Egitto una pace fredda.
Molti egiziani desiderano limitare i rapporti ancora di più. Una maggioranza di politici, amministratori, giornalisti e intellettuali si oppone alla pace con Israele. Anche se alcuni sono favorevoli a una violazione del trattato del 1979, la maggior parte dei personaggi di secondo piano argomenta a favore di un'ulteriore riduzione dell'attuale livello di cooperazione.
Invece, anche se la Giordania mantiene uno stato formale di guerra con Israele, i due paesi hanno sviluppato una fitta rete di rapporti. Il commercio è stato notevolmente incentivato da quando gli israeliani hanno avviato una politica dei "ponti aperti" subito dopo la guerra del 1967. Decine di migliaia di arabi si recano in Israele per motivi familiari, di turismo e sanitari. Nella direzione opposta, gli stranieri e gli arabi israeliani (ma non gli ebrei israeliani) entrano in Giordania venendo dallo Stato ebraico. Nelle parole di un funzionario israeliano, gli accordi conclusi nel corso degli anni sono vari "da quelli volti a risolvere i problemi delle zanzare a quelli attinenti le questioni legate al terrorismo".
Se con l'Egitto ci sono stati anni di dispute riguardo a Taba, Israele ha modificato due volte la linea del cessate il fuoco, su richiesta della Giordania. Le due parti hanno posto in essere degli accordi per eseguire delle trivellazioni alla ricerca dell'acqua e per la sua distribuzione, per il controllo del traffico aereo, per lo sviluppo dell'agricoltura, per regolare le transazioni valutarie e per evitare le tensioni militari. Gli ingegneri israeliani hanno insegnato ai loro omologhi giordani un nuovo modo poco costoso di estrarre il potassio dalla zona del Mar Morto; e per fare questo gli israeliani hanno raggiunto la Giordania attraverso una strada speciale vicino al Mar Morto. Alti funzionari israeliani e giordani s'incontrano e percorrono insieme la Cisgiordania. Di recente, sono circolate voci riguardo a un'imminente cooperazione economica israelo-giordana nella zona di Arava, sull'utilizzo da parte di Amman del porto di Haifa e perfino di un controllo giordano effettivo di Gerusalemme Est.
Lunghe trattative hanno di recente preceduto l'apertura di una filiale della Cairo Amman Bank in Cisgiordania: in discussione la supervisione delle attività della banca. Alla fine è stato raggiunto un compromesso creativo: le autorità israeliane controllano gli shekel depositati nella Bank of Israel. E le autorità giordane controllano i dinari versati nella banca centrale di Amman. La cooperazione finanziaria si estende a ogni livello pratico: quando Amman intende trasferire del denaro in Cisgiordania, una società di vigilanza trasporta il contante in un autoveicolo blindato sul fiume Giordano; al confine, i funzionari israeliani e giordani contano insieme il denaro e poi gli israeliani ne assumono il controllo. Gli israeliani si sono presi il disturbo di intercedere presso gli americani affinché finanzino il piano di re Hussein di impiegare 240milioni di dollari l'anno per finanziare un progetto di sviluppo in Cisgiordania, ma non compiono degli sforzi analoghi per aiutare l'Egitto.
I due Paesi cooperano tacitamente contro il loro comune nemico, Yasser Arafat. Per escludere l'influenza dell'Olp, essi coordinano gli impieghi municipali in Cisgiordania, e alla Giordania è consentito di aver mano libera di scegliere gli impiegati comunali. Nel dicembre 1986, ad esempio, i residenti locali ricoprivano un centinaio di posti nell'amministrazione civile della Cisgiordania, e tutti erano, stando a quel che si dice, bendisposti verso il re. Le autorità israeliane hanno espulso di recente il direttore di un quotidiano che era favorevole all'Olp; e si presume che il suo successore sia più filo-giordano.
Si parla ora di un permesso dato dagli israeliani ai partiti politici pro-giordani e alle università filo-giordane affinché questi comincino a operare in Cisgiordania. Corrono voci di ripetuti sforzi giordani per riconciliare le autorità israeliane con Atallah Atallah (noto anche come Abu Za'im), il leader palestinese che Amman appoggia come sostituto di Yasser Arafat. In molti modi, le autorità israeliane puniscono le attività pro-Olp e premiano quelle filo-giordane.
In cambio, le autorità giordane segnalano di accettare gli insediamenti ebraici in Cisgiordania. Ad esempio, non hanno appoggiato gli sforzi a Hebron di impedire la costruzione di una nuova sinagoga e non hanno più cercato di bloccare la fornitura di elettricità agli insediamenti ebraici. Un analista israeliano, Pinhas Inbari, ne conclude che
"La Giordania non mira più a ottenere un completo ritiro israeliano dai territori; al contrario, Amman è interessata a un'alleanza israeliana contro l'influenza dell'Olp e, come logica conclusione, la Giordania non deve intavolare negoziati ufficiali con lo Stato ebraico ed è abbastanza soddisfatta degli accordi dietro le quinte".
Entrambi i governi considerano la crescita economica come la chiave per ridurre l'influenza dell'Olp in Cisgiordania. Pertanto, Amman ha pubblicamente salutato la decisione israeliana dello scorso agosto di revocare il divieto di esportare in Europa i prodotti agricoli cisgiordani. In quest'ottica, è stato altresì permesso ai medici della Cisgiordania di esercitare in Israele e i docenti israeliani sono autorizzati a insegnare nell'ospedale di Ramallah. I risultati sono davvero impressionanti.
Israele e la Giordania hanno stabilito delle comunicazioni politiche dirette. Dal settembre 1963, re Hussein ha incontrato parecchie volte i leader israeliani; l'occasione più recente risale all'aprile 1987, quando il sovrano trascorse sette ore in compagnia di Shimon Peres, a Londra. Hussein ha visitato varie zone israeliane, e in un'occasione si è recato anche a Tel Aviv. Ha incontrato Golda Meir una decina di volte. Negli ultimi anni, i leader israeliani si sono incontrati con più facilità con il sovrano giordano piuttosto che con il presidente egiziano. E quel che più conta, i leader israeliani elogiano apertamente il re. Pertanto, il ministro degli Esteri Shimon Peres dice ai visitatori che lui "ammira e rispetta" il sovrano giordano.
Per garantire il diniego, in passato, gli accordi tra i due paesi sono sempre stati verbali. Ma secondo quanto riportato dalla stampa israeliana, dal 1987, la maggior parte dei contratti ora assumono la forma di messaggi scritti. Ad esempio, i negoziati riguardanti la società elettrica di Gerusalemme Est sono stati condotti attraverso una serie di comunicazioni. Gli intermediari non sono difficili da trovare: i diplomatici Usa o i funzionari cisgiordani sono in genere ben felici di offrire i loro servigi. La disponibilità di Amman a impegnarsi per iscritto denota un nuovo livello di fiducia nei funzionari israeliani.
Se si mantenessero le attuali linee politiche, il controllo congiunto israelo-giordano sulla Cisgiordania sembra essere il risultato probabile. In questo scenario, Amman soprintenderebbe alla vita quotidiana degli arabi cisgiordani, mentre Gerusalemme sorveglierebbe la vita quotidiana degli ebrei e controllerebbe la zona militarmente. I fautori di una forma di governo palestinese indipendente sarebbero esclusi dal potere.
Nove anni di pace tra l'Egitto e Israele evidenziano che le relazioni pubbliche e formali tra uno stato arabo e Israele creano di per sé dei problemi. Diversi leader arabi – specialmente il siriano Hafez al-Assad – insistono a dire che lo stato di guerra arabo contro Israele continua e che gli arabi non riconoscono l'esistenza dello Stato ebraico. Questi leader sono disposti a ignorare i legami che rimangono sub rosa, ma non possono riconoscere le relazioni ufficiali. Così, per tutelarsi dopo la firma del trattato di pace, il Cairo ha limitato i contatti con Israele.
Ci sono tutte le ragioni per credere che re Hussein farebbe la stessa cosa in seguito alla firma di un accordo di pace formale. In effetti, le autorità giordane stanno già facendo l'impossibile per nascondere le loro buone relazioni con Israele. L'attenzione allo stato di guerra amichevole dei due paesi causa delle aspre critiche da parte di Amman. Lo scorso anno, Shaul Menashe, un esperto israeliano di Medio Oriente spiegava così nei programmi radiofonici in lingua araba:
"Può sembrare sorprendente, ma adesso la propaganda più velenosa contro Israele non proviene da Damasco e neppure da Riad: arriva da Amman. I giordani vogliono dimostrare ai palestinesi dei Territori che loro non sono inferiori ad Arafat o alla Siria e possono anche voler nascondere i contatti segreti con Israele. Ecco perché la Giordania non dice mai 'il primo ministro di Israele', che anche la Siria nomina, ma preferisce dire 'il primo ministro del nemico sionista' o 'il ministro della guerra sionista'.
Se fosse firmata una pace formale, questo tipo di atteggiamento potrebbe eliminare molte delle forme esistenti di cooperazione tacita.
Se il sovrano giordano firmasse un documento, l'Arabia Saudita taglierebbe le sovvenzioni, l'Iraq raffredderebbe i rapporti e la Siria darebbe inizio ad attività di sabotaggio e con finalità di terrorismo. Perché Israele e gli Usa dovrebbero mettere in pericolo un regno relativamente stabile e pro-americano per un pezzo di carta? Una pace formale richiederebbe da Israele un prezzo da pagare minacciando la sicurezza della Giordania e riducendo i legami bilaterali. I palestinesi risentirebbero di una rottura della cooperazione giordano-israeliana, di condizioni di vita peggiorate in Cisgiordania e di una probabile esplosione di violenze tra le fazioni palestinesi.
Le relazioni non-ufficiali, e anche clandestine, che la Giordania mantiene con Israele, hanno il vantaggio di non provocare problemi. La chiave per le relazioni tra Amman e Gerusalemme sta – paradossalmente – nel fatto che questi rapporti non siano codificati da strumenti giuridici: vale a dire che essi sono dei mezzi ufficiosi da poter negare. Quello che Shimon Peres definisce un rapporto "caratterizzato dalla comprensione piuttosto che da un accordo [formale]", non deve essere alterato con leggerezza. Il premier Yitzhak Shamir descrive pubblicamente i rapporti con la Giordania "una pace di fatto"; e non c'è niente da meravigliarsi, visto che lui e molti israeliani la preferiscono a una pace formale, ma fredda.
Questa conclusione pessimistica non implica che tutti i trattati di pace tra i Paesi arabi e Israele siano controproducenti, ma significa solo che vanno valutati attentamente i pro e i contro. Nel complesso, il trattato tra l'Egitto e Israele probabilmente è vantaggioso per questi due paesi (e quindi per gli Usa) più di qualsiasi altra alternativa. Nel caso della Giordania, tuttavia, gli svantaggi associati a un trattato formale sembrano superare i benefici.
Uno stato di guerra amichevole funziona bene o addirittura meglio di uno stato di pace ostile. Washington dovrebbe tenerne conto.