Il presidente Bush l'ha reso ufficiale: il tentativo di Saddam Hussein di collegare il Kuwait e la Palestina è ora, in effetti, anche la linea politica americana.
Questo è quanto asserito dal presidente mercoledì sera, nel corso di due importanti dichiarazioni sul Medio Oriente in una sessione congiunta nel Congresso. Innanzitutto, "la guerra è finita". In secondo luogo, "è arrivato il momento di porre fine al conflitto israelo-palestinese".
Nel collegare le due questioni, Bush sta facendo ciò che tutti gli importanti partner della coalizione cercano avidamente di fare. Douglas Hurd, il ministro degli Esteri britannico, ha promesso un ritorno alla questione palestinese "con rinnovato vigore" non appena il Kuwait è stato liberato; durante la crisi, il governo francese ha esercitato forti pressioni per creare un nesso. Le autorità saudite ed egiziane considerano la causa palestinese come il veicolo ideale per lucidare le credenziali nazionaliste; e stanno pubblicamente spingendo per farne la massima priorità diplomatica.
Nell'ottobre 1990, alle Nazioni Unite, il presidente Bush ha lanciato dei segnali in merito a una certa disponibilità a collegare le due questioni; subito dopo, secondo una fonte siriana, lui assicurò a Hafez al-Assad che sarebbe stata indetta una conferenza internazionale. Alla fine di gennaio, una dichiarazione congiunta Usa-Urss ha reso esplicito questo nesso, ritenendo particolarmente importante che il conflitto arabo-israeliano fosse affrontato per risolvere i problemi d'instabilità nel Golfo Persico.
Anche al di fuori degli ambienti governativi esiste un ampio accordo sul fatto che è arrivato il momento di concentrare l'attenzione sul conflitto arabo-israeliano. Henry Kissinger vede la vittoria nel Golfo Persico come "un'opportunità storica"; l'Economist si spinge oltre fino a sostenere che "il compito principale dell'America nel Medio Oriente postbellico sarà quello di fungere da onesto mediatore tra Israele e i palestinesi".
Sono queste delle voci importanti e avvedute a favore del nesso che deve correre tra le due questioni. Ma per parafrasare il generale Schwartzkopf, l'idea è illogica, intempestiva e controproducente. A parte questo, è un piano importante.
Il nesso è illogico perché l'invasione irachena del Kuwait non ha nulla a che fare con la causa palestinese. Infatti, lo stesso Saddam non ha trovato nessuna connessione fino a dieci giorni dopo l'occupazione, quando cercava un appiglio per rispondere all'inatteso oltraggio internazionale. È anche illogico perché i 400.000 palestinesi residenti in Kuwait sono stati tra i primi a soffrire a causa dell'invasione irachena, perdendo il loro status fiduciario, il lavoro e i risparmi, e perfino la vita. Ha più senso considerare il conflitto arabo-israeliano come si guarda al problema del Kashmir. La disputa accosta il conflitto arabo-israeliano [al Kuwait] per la durata e le origini nella creazione di un nuovo stato delineato a livello religioso, per le sue passioni nazionaliste, l'escalation militare, per la complessità e la distanza geografica dal Kuwait.
Rivolgere l'attenzione al conflitto arabo-israeliano in questo momento non ha alcun senso politico. Gli americani hanno appena fatto un investimento molto costoso nel Golfo Persico e questo ha dato i suoi frutti; perché sprecare quest'opportunità unica deviando l'attenzione su una questione marginale? In questo momento, ma solo per qualche settimana o per alcuni mesi, c'è l'opportunità di influenzare il futuro corso della politica in Iraq.
Tralasciare la questione e occuparsi di qualcos'altro – e questo dovrebbe essere troppo ovvio da dire – sarebbe un tragico errore. Sarebbe come se il governo Usa alla fine del 1945 avesse deciso di trascurare la Germania e il Giappone a favore del problema irlandese.
A dire il vero, non c'è bisogno di cercare così lontano per fare un'analogia: Washington fece esattamente questo errore nel 1982, quando l'incapacità di stare lontano dalla Cisgiordania significò la perdita di un'occasione unica in Libano. Vale la pena ricordare questa storia perché è paragonabile alla situazione odierna. Ecco cosa accadde.
Alla fine dell'agosto 1982, le truppe israeliane avevano raggiunto i loro obiettivi in Libano – facendo uscire l'Olp da quel Paese, riducendo la forza militare siriana, installando un governo amico. Questi furono dei successi israeliani e non americani, ma lo stretto legame di Israele con gli Usa, compresa la dipendenza dalle armi americane, portò il prestigio statunitense a crescere vertiginosamente in tandem con quello di Israele. Washington avrebbe potuto cogliere l'occasione per ristrutturare la forma di governo libanese, cambiando gli equilibri e riducendo il potere dei cristiani a favore dei musulmani.
E invece mise da parte le questioni libanesi. Osservando che la guerra del Libano "ci ha lasciato una nuova opportunità", il 1° settembre 1982, il presidente Reagan fornì un piano (molto sensato) per risolvere il rompicapo della Cisgiordania suggerendo un nesso palestinese con la Giordania. Re Hussein di Giordania rimuginò l'idea per sette mesi e alla fine si espresse contro nell'aprile 1983. Una volta rifiutata seccamente l'idea, il segretario di Stato George Shultz rivolse la sua attenzione al Libano, ma a quel punto la diplomazia americana non poté più prevalere, perché l'esercito siriano era ancora forte e un nuovo presidente libanese era entrato in carica. Impavido, Shultz usò il suo incarico per indurre libanesi e israeliani a porre fine allo stato di guerra tra i loro due paesi. Tuttavia, la sua fu una vittoria di Pirro: a poco meno di anno dalla firma dell'accordo del 17 maggio 1983, il presidente siriano Hafez al-Assad aveva costretto il governo libanese a recedere dall'accordo. Con questo, Washington perse l'opportunità fugace di contribuire a cambiare le cose in Libano.
Otto anni dopo, questo sfortunato episodio è sprofondato nel dimenticatoio. Il presidente Bush, in un linguaggio stranamente analogo a quello di Reagan, ha parlato davanti al Congresso di "nuove opportunità" per affrontare il conflitto arabo-israeliano. Anche lui ha tratteggiato una nuova politica
sensibile alla risoluzione di quel conflitto (definita "l'approccio a doppio binario"). Come il suo predecessore, Bush sembra intenzionato a spostare l'attenzione dal fluido e relativamente semplice problema del momento (il Libano, il Golfo Persico) alla palude del secolare pasticcio israelo-palestinese. Come Reagan, Bush sembra sul punto di lasciarsi scappare un'opportunità unica.
Tutto questo non ha senso. Ma poi, come Irving Kristol osserva: "Quale tentativo di risolvere il conflitto arabo-israeliano sarebbe vanificato per primo dal volere degli dei?"