I curatori hanno commissionato e raccolto non meno di 57 di quelle che essi definiscono "alcune delle fonti [primarie] più vivide e trascurate" sulle conversioni all'Islam durante il periodo premoderno, dal 700 al 1650. La copertura geografica si estende dall'Africa occidentale all'Indonesia, con un'enfasi sul Medio Oriente e soprattutto su Siria e Iraq, un riflesso della centralità del Medio Oriente nell'Islam e delle fonti disponibili. Le traduzioni in inglese sono state effettuate da svariate lingue come l'armeno e il malese, e ciascuna è seguita da suggerimenti per ulteriori letture.
Gli studiosi sono impeccabili, offrendo una ricerca sobria e colta su un argomento chiave della storia islamica. Leggere gli estratti uno dopo l'altro, qua e là, andando avanti nel tempo, fornisce informazioni dettagliate su circostanze, motivazioni, implicazioni giuridiche, cambiamenti personali, impatto sociale e altro ancora.
Ma al di là di questi dettagli, la raccolta dà un'ineluttabile impressione generale di tradimento e oppressione: quasi sempre, il convertito si rende conto implicitamente che, quando condivide ciò che i curatori definiscono candidamente "la speranza di unirsi alla 'squadra vincente di Dio'", pianta in asso i suoi ex-correligionari. Nella Geniza, ad esempio, il convertito era in genere definito "criminale" (in ebraico, poshe'a).
Al contrario, poche conversioni si verificano per ragioni oggettive, affermative e ispiratrici. (Un'eccezione degna di nota riguarda i 41 monaci di Amorio che si convertirono in massa.) Così svanisce il distacco accademico dei curatori, marginalizzato dal dolore che impregna le testimonianze e le grida che risuonano nei secoli. Per i miscredenti del suprematismo islamico il tormento rimane tristemente costante.