Se per democrazia si intende una sporadica consultazione elettorale con una limitata scelta di candidati che non possono parlare liberamente né votare la carica più autorevole, allora di certo l'islamismo non ha alcun problema con la democrazia. Ma se il termine si riferisce a un sistema in cui i cittadini sono in possesso di quei diritti (come la libertà di espressione, la supremazia della legge, i diritti delle minoranze, un potere giudiziario indipendente) necessari per prendere delle decisioni libere e intelligenti, dal momento che essi dispongono di una reale scelta di candidati, e possono esprimere la propria preferenza per designare chi li governerà, allora l'islamismo non è affatto democratico.
Gli islamisti credono nella sovranità divina ed esprimono un reale e profondo sdegno per la sovranità popolare, che si trova ad essere l'idea chiave della democrazia. Piuttosto, pensano che i musulmani non hanno bisogno di nient'altro che la legge islamica (la Shari'a) come sarebbe applicata da un governante islamista: "Un uomo libero è colui che obbedisce alle regole e agli ordini di Allah e che adora solo Dio". Quando il governante ha il potere deve fare la volontà divina e non quella degli uomini. Hadi Hawang della Malesia è categorico a proposito: "Non sono interessato alla democrazia, l'islam non è la democrazia, l'islam è l'islam". Ahmad Qutash al-Azayida, un deputato islamista della Camera bassa in Giordania è altresì laconico: "La legge islamica è ciò che vogliono tutti i musulmani e la regola della maggioranza è la democrazia". Nelle famose (anche se non del tutto appurate) parole di 'Ali Belhadj, un leader del Fronte islamico per la salvezza algerino, "Quando saremo al potere, non ci saranno più elezioni perché a governare sarà Dio".
Muhammad al-Ghazali, uno degli ideologi islamisti di spicco dell'Egitto, spiega più estesamente che rifiuta la democrazia perché essa conferisce agli esseri umani il potere di ignorare la legge islamica. Se il Parlamento, ad esempio, abolisse la pena capitale, ciò "violerebbe il testo islamico, che sostiene che gli assassini devono essere giustiziati. Questa democrazia, allora, va respinta perché viola un testo religioso esistente per tutto lo sviluppo della religione: dal giudaismo al cristianesimo e all'islam.
Certi ideologi accettano una consultazione in seno alla famiglia di esperti islamici (la shura in arabo), mentre rifiutano la consultazione aperta prevista dalla democrazia. Ghazali definisce la consultazione "il governo di Dio" e la democrazia è "il governo del popolo". Egli accetta la prima perché implica i pii consultanti, gente timorosa di Dio, mentre la democrazia comprende le opinioni di coloro che "commettono grossi peccati e dissolutezze". La democrazia è deplorevole perché tratta con equità "il virtuoso e il debosciato, il forte e il debole, il credente e l'infedele".
Gli islamisti insistono altresì sul fatto che i musulmani non hanno bisogno di preoccuparsi delle superfluità della democrazia politica, visto che già possiedono qualcosa di molto meglio. L'islam, come asserisce in modo avventato il sudanese Hasan at-Turabi, è intrinsecamente democratico e non ha bisogno degli orpelli della democrazia all'occidentale. Esso "è la forma più moderna del messaggio divino, è la religione più democratica (…) il messaggio di Dio ci ordina di dare, di condividere, tutto: potere, sapere, proprietà, ricchezza. Questa condivisione totale è la democrazia spinta nei più remoti recessi della vita quotidiana".
Una logica così peculiare (cosa ha a che fare con la scelta di un leader ?) conduce Turabi all'audace conclusione che i partiti politici sono delle "trappole per cacciare voti che garantiscono l'esercizio del potere a vantaggio di qualche persona". In altre parole, la democrazia è veramente una forma di dittatura!
Nella sua inchiesta sulle audiocassette registrate da trenta eminenti predicatori musulmani sunniti (e destinate ad essere ascoltate solo dai correligionari), l'insigne studioso israeliano Emmanuel Sivan è giunto a questa inequivocabile conclusione:
Non si può accogliere la democrazia: è il verdetto dei trenta più popolari predicatori islamisti sunniti. Non si può accogliere il pluralismo, la libertà e l'eguaglianza neanche davanti alla legge, a meno che non si è vincolati e costretti dalla Shari'a. La loro moltitudine di sostenitori sembra d'accordo.
Tuttavia, questa disapprovazione filosofica ha le sue eccezioni. Sivan domanda: "Allora, gli islamisti dovrebbero ricorrere al tanto criticato processo elettorale, se utilizzabile? Malgrado le riserve dei predicatori in materia di 'governo della maggioranza ignorante', essi rispondono con un echeggiante 'sì'. Costoro possono disprezzare la democrazia, ma sono pronti a sfruttarla per perseguire il potere".
In altre parole, come ad altri non-democratici esterni al potere, agli islamisti piace la democrazia. Sviluppano perfino degli schemi teorici per giustificare la democrazia come metodo islamico per scegliere i propri leader.
Sì, gli islamisti a volte parlano come dei democratici, ma non c'è nessun motivo di credere che queste belle parole sono una guida veritiera delle loro intenzioni, piuttosto che un modo per ottenere la legittimità e accrescere le opportunità di prendere il potere. Gli esiti elettorali sono soddisfacenti finché gli islamisti non hanno mano in pasta. Una volta giunti al potere, non lo abbandoneranno di buon grado (un comportamento che nel 1992 il vicesegretario di Stato per il Medio Oriente Edward Djerejian ha così definito: "una persona può esprimere una sola volta un unico voto"). Molti elementi denotano che le loro parole dolci sulla democrazia sono temporanee. Hans Guenter Lobmeyer, uno specialista di Siria, dice così dei Fratelli musulmani in quel Paese: "È fuori questione che la democrazia non è l'obiettivo politico della Fratellanza, ma un mezzo per raggiungere un altro fine che è quello di assumere il potere". Ahmad Nawfal, un membro dei Fratelli musulmani in Giordania, riassume con franchezza questa dinamica duale: "Se dobbiamo scegliere fra la democrazia e la dittatura, noi sceglieremo la democrazia. Ma se dobbiamo farlo fra l'islam e la democrazia, sceglieremo l'islam".
Martin Kramer, uno dei principali analisti di islamismo, ha chiaramente asserito che quando gli islamisti si accostano ai corridoi del potere, il loro entusiasmo per la sovranità popolare fa una breve comparsa nel guardare a tre importanti ideologi islamisti: Rashid al-Ghannushi, un esiliato tunisino; Muhammad Husayn Fadllah, a capo dell'influente movimento Hezbollah in Libano; e Turabi, intermediario chiave in Sudan (fino alla recente caduta in disgrazia).
Ghannushi, da Londra, ben lungi dal potere, sta facendo delle riformulazioni parlando a dir poco di un sistema pluripartitico. Fadlallah si trova in Libano, pressoché sulla strada verso il potere, come lo è il movimento Hezbollah, che ha un certo peso nella politica libanese, e pertanto essi permettono solo un sistema di governo fondato sull'islam. I partiti politici musulmani sono leciti, ma non i partiti comunisti, secolaristi e nazionalisti, perché non riescono a immaginare un partito politico legittimo che ha come obiettivo la privazione dei diritti dell'islam. Turabi, che è al potere, ha fatto la razionalizzazione più coerente per escludere tutti gli altri dall'esercizio del potere. Questo è un sistema senza partiti.
Kramer rileva che questo spettro politico depone contro l'idea affascinante che il potere modera gli islamisti. Piuttosto, al contrario, egli ritiene che "la debolezza modera gli islamisti. È la distanza e l'esclusione dal potere che crea l'opportunità di fare delle nuove riflessioni".
Decenni fa, Adolf Hitler e Salvador Allende hanno dimostrato come un processo non-democratico può sfruttarne uno democratico. Gli islamisti se la sono altresì cavata bene in fatto di elezioni. Nel 1991, hanno vinto le elezioni comunali in Algeria e istallato un primo ministro nella Turchia laica nel 1996-97. Hanno avuto successo nelle elezioni libanesi e giordane e hanno ottenuto un considerevole numero di voti in Cisgiordania e a Gaza. Ma non hanno ancora preso il controllo di un governo.
Se arriveranno a farlo, avremo una certa idea di ciò che farebbero a partire dai regimi islamisti esistenti in Iran, Pakistan, Afghanistan e in Sudan, che sono tutti estremamente autocratici con delle tendenze totalitarie: essi controllano il settore politico e mirano a controllare tutti gli altri aspetti della vita dei loro asserviti.
La Repubblica islamica dell'Iran offre l'esempio più importante. Finché lo Scià ha governato, gli islamisti iraniani hanno promesso di rimpiazzare la sua autocrazia con un sistema aperto e democratico. Nel prendere il potere, l'Ayatollah Ruhollah Khomeini ha promesso una democrazia reale (un'assemblea "in base ai voti degli iraniani", per usare le sue parole). Una volta in carica, egli ha in parte mantenuto questa promessa: le elezioni iraniane sono molto contrastate e il Parlamento dispone di un potere reale. Ma vi sono alcuni limiti importanti. Innanzitutto, solo i candidati (inclusi i non-musulmani) che condividono l'ideologia ufficiale islamista possono presentarsi alle elezioni, in modo tale che i parlamentari rappresentano un esiguo spettro politico dell'opinione iraniana. In secondo luogo, la Guida suprema non-eletta (un tempo Khomeini, ora Ali Khamenei) ha molti più poteri del governo eletto, inclusi il controllo dell'esercito, della polizia, dei servizi di intelligence, dei tribunali, dei media elettronici e delle scuole. Il regime di Teheran offre dunque una versione molto limitata – quasi simbolica – della democrazia.
In questi ultimi anni, man mano che la popolazione iraniana si è mostrata sempre più insoddisfatta, le autorità hanno permesso di allargare la rosa dei candidati elettorali, Muhammad Khatami in particolare. Ma la fazione di Khathami è ancora dentro l'ovile, cercando di non sbarazzarsi dell'ideologia islamista che governa l'Iran, ma solo di migliorarla. Questi sono dei riformisti e non dei rivoluzionari, che sperano di perfezionare la Repubblica islamica per farla durare più a lungo.
Ascoltando i trenta predicatori islamisti mentre discutono di democrazia, Sivan conclude che "gli occidentali che dibattono la questione dell'islam e della democrazia farebbero bene ad ascoltare quelle voci, che rappresentano il discorso egemonico nel movimento islamista. Quando gli islamisti parlano tra loro, e non per uso e consumo esterno, i discorsi sono esplicitamente e inequivocabilmente antidemocratici. E così sarebbe il loro comportamento se dovessero prendere il potere".
Ma non lo fanno solo gli islamisti: i musulmani moderati tentano di mettere in guardia il mondo contro la natura antidemocratica dell'islamismo. Se ne dovrebbe tenere conto. Zazi Sadou, portavoce di un'associazione algerina di donne democratiche, spiega che "i musulmani fondamentalisti, i loro finanziatori e tutti i loro sostenitori (…) non vogliono ciò che è meglio per noi. Quello che vogliono è avere tutto il potere di costituire uno Stato fascista e teocratico". El Mahdi Abas Allahu, un leader politico algerino, ritiene che gli islamisti "non accettano la democrazia perché, a loro avviso, la democrazia equivale all'ateismo". Oppure, nelle parole di Khalid Duran, un analista americano: essi non possono "essere giudicati per quello che dicono o scrivono, ma esclusivamente per ciò che fanno".