Il tanto atteso incontro tra Barack Obama e Binyamin Netanyahu si è svolto senza intoppi, anche se con un po' di tensione, come previsto. Tuttavia, subito dopo sono arrivate le discussioni, con una serie di dure richieste da parte degli Stati Uniti, specie l'ostinazione mostrata il 27 maggio dal Segretario di Stato Hillary Clinton nel chiedere al governo Netanyahu di bloccare gli insediamenti ebraici in Cisgiordania e a Gerusalemme est. Ciò ha indotto ad una reazione insolente. Il presidente della coalizione governativa israeliana ha fatto rilevare l'errore dei precedenti "diktat americani", un ministro ha paragonato Obama ad un faraone e il responsabile dell'ufficio stampa di governo ha asserito in modo sfacciato con falsa ammirazione: «Devo apprezzare gli abitanti del territorio irochese presumendo che essi abbiano diritto a stabilire dove gli ebrei dovrebbero vivere a Gerusalemme».
Se i dettagli del "chi-vive-dove" hanno poca importanza strategica, la repentina e dura svolta contro Israele ha potenzialmente un enorme significato. Non solo l'amministrazione ha posto fine all'attenzione rivolta da George W. Bush ai cambiamenti da parte palestinese, ma non si è neppure curata degli accordi informali che Bush aveva raggiunto con Ariel Sharon ed Ehud Olmert.
Yasser Arafat sorride durante l'incontro fra Barack Obama e Mahmoud Abbas del luglio 2007. |
Un funzionario dell'Ap ha previsto che ciò accadrebbe nel giro di "un paio d'anni", esattamente quando Obama dice di attendersi la nascita effettiva di uno Stato palestinese. Intanto, Abbas non intende prendere iniziative. Diehl chiarisce il suo pensiero: «Abbas rifiuta l'idea di dover fare qualunque equiparabile concessione: come riconoscere Israele come Stato ebraico, il che implicherebbe la rinuncia a qualsiasi insediamento di profughi su vasta scala. Rimarrà passivo (…) "Aspetterò che Israele congeli gli insediamenti", dice. "Fino ad allora, in Cisgiordania avremo un'ottima realtà (..) la gente vivrà un'esistenza normale"».
Va aggiunto che il concetto di Abbas di una "vita normale" è altresì in gran parte offerto da Washington e dai suoi alleati: i palestinesi della Cisgiordania godono di gran lunga dei più ingenti aiuti finanziari procapite provenienti dall'estero rispetto a qualsiasi altro gruppo al mondo; ad esempio, nella sola "Conferenza dei donatori per l'Autorità palestinese" del dicembre 2007, Abbas ottenne offerte per oltre 1.800 dollari l'anno procapite per ogni cisgiordano. Come Diehl conclude laconicamente: «Nell'amministrazione Obama, finora, è facile essere palestinesi». Il nuovo approccio americano è condannato, anche se si ignora la follia di focalizzare l'attenzione sugli abitanti di Gerusalemme che ingrandiscono le loro abitazioni con sale di ricreazione piuttosto che sugli iraniani che aggiungono centrifughe alle loro infrastrutture nucleari e pur chiudendo un occhio sull'ovvia dannosità di aiutare Abbas a uscire da una situazione difficile. Innanzitutto, la coalizione governativa di Netanyahu dovrebbe dimostrarsi indifferente alle pressioni Usa. Quando egli ha formato il governo nel marzo scorso quest'ultimo annoverava 69 parlamentari su 120 membri della Knesset, ben oltre il minimo di 61. Anche se il governo statunitense è riuscito a separare i due partiti meno dediti agli obiettivi di Netanyahu, il Partito Laburista e lo Shas, il premier israeliano potrebbe rimpiazzarli con partiti religiosi e di destra per mantenere una solida maggioranza.
In secondo luogo, i trascorsi mostrano che Gerusalemme corre dei "rischi per la pace" solo se ha fiducia nel suo alleato americano. Un'amministrazione che mina questa fragile fiducia probabilmente affronterà una cauta e riluttante leadership israeliana. Se Washington seguita con la sua attuale condotta, il risultato potrebbe ben essere uno straordinario fallimento della linea politica che riuscirà ad indebolire solamente l'alleato strategico in Medio Oriente come pure riuscirà ad aggravare le tensioni fra palestinesi e israeliani.