In un articolo di qualche settimana fa dal titolo "La leadership smarrita di Olmert & Co." (vedi liberal del 14 gennaio), ho fatto tre considerazioni: che la leadership israeliana si è resa artefice degli attuali problemi di Gaza; che la guerra contro Hamas ha significato ignorare la ben più pesante minaccia delle armi nucleari iraniane; e che l'obiettivo di dare più potere ad Al-Fatah è privo di senso.
Queste argomentazioni hanno suscitato molte critiche da parte dei lettori, che scrivendomi hanno espresso delle interessanti considerazioni meritevoli di risposte. Sintetizzando per chiarezza gli interrogativi, replico qui ad alcuni di loro in un'ideale intervista.
Il suo articolo è veramente irritante. Ha qualcosa di stimolante da dire?
In questi giorni il Medio Oriente è fonte di cattive notizie a livello pressoché assoluto. Due insoliti sviluppi positivi riguardano l'economia: grazie alle riforme attuate da Binyamin Netanyahu, Israele è riuscito a svezzarsi dal debilitante socialismo dei suoi primi anni, e i prezzi energetici sono scesi di oltre due terzi.
Ammettendo che lei abbia ragione, i toni dell'articolo non possono far altro che incoraggiare i nemici di Israele. Un linguaggio più cauto nei confronti della situazione politica andrebbe maggiormente a vantaggio dello Stato ebraico.
Provo ad offrire una critica costruttiva. Anche se i nemici di Israele traessero incoraggiamenti dalla mia analisi tutt'altro che stimolante, credo che ciò sia più che compensato dalla possibilità di dare una mano agli israeliani a comprendere i propri errori.
Il nemico di Israele è la fedifraga leadership che lavora intenzionalmente alla distruzione dello Stato ebraico e così facendo rischia di causare un altro Olocausto agli ebrei di tutto il mondo. Rifiutarsi di rendere ciò chiaro e continuare a nascondersi dietro l'incompetenza è il vero problema. È ora di smettere di incoraggiare la leadership perché così si diventa a propria volta un traditore.
Se uno è un traditore dello Stato ebraico per non aver visto la leadership israeliana come quella che "lavora intenzionalmente alla distruzione dello Stato ebraico per causare un altro Olocausto agli ebrei di tutto il mondo", allora mi dichiaro colpevole. Considero la leadership ebraica incompetente, ma non malefica e men che meno suicida.
Ecco una soluzione strategica per Gaza: Israele dovrebbe prendere in locazione una striscia del territorio appartenente all'Egitto da utilizzare come una buffer zone.
Magnifica idea. Ad eccezione del fatto che non esiste possibilità alcuna che il Cairo sia d'accordo.
La sua analisi considera erroneamente Israele come un attore indipendente, quando il governo americano ha un importante ruolo nel limitare le azioni israeliane.
Mi sono occupato della questione e mi sono detto contrario al ritiro da Gaza in un pezzo intitolato "Il ritiro da Gaza da parte di Sharon – è stato deciso a Washington?", ma tale affermazione è più generica rispetto al problema di Gaza e necessita di un'analisi approfondita.
In sintesi replico come segue. L'idea che Washington imponga delle pessime idee a una Gerusalemme riluttante è consolante, il che implica che gli USA si comporterebbero così visto che la leadership israeliana sa cosa fare ma non può farlo; sfortunatamente ciò è anacronistico.
Dal 1973 al 1993 quello fu in effetti lo schema seguito. Tuttavia, dagli Accordi di Oslo, la leadership israeliana non è stata soltanto una compiacente complice della sua controparte americana, ma essa ha preso spesso l'iniziativa – per esempio, negli stessi Accordi di Oslo del 1993, nel ritiro dal Libano del 2000, negli incontri di Camp David II del 2000, nei negoziati di Taba del 2001 e nel ritiro da Gaza del 2005.
Aaron Lerner riassume questo punto in "La pressione americana non è il problema" argomentando che le "iniziative diplomatiche israeliane sono state quasi tutte portate a termine solamente con la retroattiva approvazione americana" per poi fornire degli esempi.
E se a comandare nello Stato ebraico fossero i più efficienti elementi della società israeliana, vale a dire l'esercito?
Ma l'esercito israeliano ha già in gran parte comandato nel fondamentale re-indirizzamento dalla deterrenza all'appeasement avuto luogo nel 1993 – Rabin, Barak e Sharon hanno dominato gli ultimi sedici anni, insieme a molti altri ex-generali, nella vita pubblica del paese. In Israele, come nel resto del mondo, l'esercito tende ad assorbire il trito e ritrito sinistrismo prodotto dalla società civile.
Questo non è il momento di guardarsi indietro e di addossare delle responsabilità, piuttosto è il momento di andare avanti e risolvere il problema.
Attribuire delle responsabilità per degli errori commessi non è solamente una questione di puntare il dito contro qualcuno, ma è una questione di cruciale importanza per evitare di dover ripetere quegli errori.
Che deve fare Israele adesso?
In un altro articolo pubblicato questo mese dal titolo "Risolvere il problema palestinese" (vedi liberal del 19 gennaio) ho appoggiato l'opzione Giordania-Egitto, affinché la prima assuma il controllo della Cisgiordania e il secondo di Gaza.
Perché Olmert ha sprecato questa opportunità per affrontare il pericolo relativamente trascurabile rappresentato da Hamas piuttosto che affrontare la minaccia esistenziale del programma nucleare iraniano?
La risposta è tutta racchiusa in un articolo pubblicato l'11 gennaio dal New York Times e titolato «Gli Stati Uniti hanno rifiutato di concedere il loro aiuto per dei raid israeliani sul sito nucleare iraniano», il che spiega che il governo americano ha ostacolato i tentativi israeliani di distruggere gli impianti di Natanz. Tuttavia, come ho già avuto modo di dire, sono convinto che le Forze di difesa israeliane non necessitano dell'approvazione americana per attraversare l'Iraq o di supplementari armi e munizioni statunitensi per colpire obiettivi iraniani.
È facile muovere delle critiche; lei pensa veramente che si potrebbe fare di meglio? Se è così, perché non si reca in Israele ed entra in politica?
Un giornalista sportivo non ha bisogno di guadagnarsi le stellette sul campo prima di muovere delle critiche ai giocatori – e nemmeno un analista di Medio Oriente deve arrampicarsi sullo scivoloso pennone della politica israeliana prima di offrire delle analisi strategiche.
Cosa pensa degli altri piani alternativi che girano, due dei quali chiedono che non si dia vita a nessuno stato palestinese e che gli arabi palestinesi vengano pagati per andarsene e stabilirsi in un paese di loro scelta, che non sia Israele? L'iniziativa israeliana è opera di Benny Elon, un membro della Knesset e l'altra è frutto del Jerusalem Summit, di cui è artefice Martin Sherman, un docente della Tel Aviv University.
Plaudo questi tentativi di pensiero creativo. Il piano Elon somiglia alla mia idea sul coinvolgimento della Giordania e dell'Egitto, anche se esso si focalizza esclusivamente sulla Giordania «come unica legittima rappresentante dei palestinesi» e chiama in causa la sovranità israeliana sulla Cisgiordania, qualcosa che io non ho reclamato. I piani del Jerusalem Summit chiedono «una generosa combinazione di trasferimento e insediamento» invitando i palestinesi ad abbandonare le zone sotto il controllo israeliano. Credo che questa proposta troverà pochi consensi.
Dove si colloca il leader Binyamin Netanyahu in tutto questo? Non è un falco che si rifiuta di pensare di poter cedere delle terre israeliane, per nessun motivo al mondo?
Se avessi diritto di voto nelle elezioni israeliane, oggi voterei per lui. Detto questo, lo abbiamo visto in azione come primo ministro tra il 1996 e il 1999, e a mio avviso il suo incarico si è rivelato un fallimento (contrariamente a quello successivo al dicastero delle Finanze, che è stato un successo). In particolare, ricordo il suo scarso rendimento riguardo la Siria (di cui ho scritto in un articolo del 1999 dal titolo "La strada per Damasco: che cosa Netanyahu ha quasi ceduto"). Probabilmente, Netanyahu è maturato come leader, ma il vecchio adagio: «Fammi fesso una volta e vergognati; fammi fesso una seconda volta e a vergognarmi sarò io» implica che il Likud potrebbe aver reclutato un volto nuovo.
Adesso che il generale (in pensione) Moshe «Boogie» Ya'alon è entrato in politica, crede che vi sia speranza per il futuro di Israele?
L'ex-capo di Stato maggiore delle IDF, il tenente generale Moshe Ya'alon, si è unito al partito Likud nel novembre 2008. |
Ma se si esamina attentamente la sua analisi Israele e i palestinesi: una nuova strategia, Ya'alon non lavora per ottenere una simile vittoria sui palestinesi. Piuttosto, egli desidera riformare l'Autorità palestinese in modo che questa possa controllare meglio il territorio, far rispettare la legge, rafforzare la propria autorità giudiziaria, acquisire uno spirito democratico e migliorare le qualità di vita della propria popolazione.
«Convalescenza economica, efficace principio di legalità e democratizzazione sono le condizioni fondamentali», egli scrive «per una riabilitazione della società palestinese». Ya'alon conclude asserendo che una riorganizzazione della società palestinese, conformemente alle sue idee, «potrebbe plausibilmente fungere da base per un futuro accordo che realizzerebbe alcune delle speranze che erano state riposte nel processo di Oslo». Pertanto, ne deduco che l'obiettivo di Ya'alon non è la vittoria bensì è un altro tentativo di compromesso e risoluzione in stile Oslo.
Cosa accade agli israeliani che non combattono più in modo intelligente?
Ottima domanda. Ne ho già scritto l'estate scorsa e qui ripeto: lo Stato strategicamente brillante, ma economicamente inadeguato, dei primi tempi è stato rimpiazzato dall'esatto opposto. A quanto pare le menti dello spionaggio, i geni militari e i cervelloni politici si sono lanciati nell'alta tecnologia, lasciando lo stato nelle mani di gente mediocre, corrotta e mentalmente miope.
Ma ciò non spiega l'intera situazione, che è frutto di una profonda commistione di stanchezza e arroganza. Le migliori analisi di questo problema sono quelle a firma di Yoram Hazony, Lo Stato ebraico: la lotta per l'anima di Israele e di Kenneth Levin, La sindrome di Oslo: Delusioni di un popolo sotto assedio.
Dottor Pipes, lei dovrebbe tentare di eliminare le tensioni esistenti tra Israele e i Paesi arabi vicini.
I tentativi volti ad eliminare le tensioni sono stati un tema centrale sin dall'accordo del Km 101 del 1973. Essi falliscono perché tentano di aggirare una definitiva conclusione del conflitto arabo-israeliano. Io sono a favore di una conclusione definitiva, poiché questo è l'unico modo per porre fine al conflitto.