Il viaggio più bizzarro della presidenza di Bill Clinton inizia domenica, quando l'inquilino della Casa Bianca si recherà in Israele e nei territori dell'Autorità Palestinese. Perché il presidente degli Stati Uniti fa quattro viaggi nel piccolo Israele, più che in qualsiasi altro Paese straniero? E perché visita i palestinesi, forse la popolazione più rabbiosamente antiamericana del mondo? Con i problemi che incombono in tutto il mondo – una possibile guerra con la Corea del Nord, l'Iraq che frappone difficoltà ai controlli, la crisi finanziaria in Russia – per quale motivo Clinton sceglie di trascorrere del tempo a Gaza?
Perché il governo degli Stati Uniti, insieme a gran parte del mondo, crede che il conflitto arabo-israeliano sia la chiave per riassestare il Medio Oriente. Saddam Hussein è minaccioso? Basta estirpare il bubbone dell'ostilità araba nei confronti di Israele e il tiranno iracheno non potrà più mobilitare "l'opinione pubblica" nel mondo arabo. Il fondamentalismo islamico avanza? Stesso rimedio, che funziona anche per la proliferazione delle armi di distruzione di massa, per le rotte di rifornimento di petrolio in pericolo e per il terrorismo. Se si risolve il conflitto arabo-israeliano questo diminuirà di intensità o sparirà dall'agenda politica.
Se solo fosse così. In effetti, il conflitto arabo-israeliano è solo uno dei tanti problemi gravi che stanno devastando il Medio Oriente e anche la sua soluzione ottimale difficilmente influirebbe sugli altri problemi. L'economia dei Paesi della regione continuerebbe a declinare, i numerosi conflitti frontalieri continuerebbero senza sosta, il radicalismo politico rimarrebbe forte.
Dovremmo accantonare l'idea felice ma assurda che una soluzione al conflitto arabo-israeliano creerà, secondo l'espressione di Shimon Peres, ex premier israeliano, un "nuovo Medio Oriente" dove la prosperità raffredda tutte le passioni e il commercio sostituisce il conflitto. Anziché accarezzare questo sogno irrealizzabile, affrontiamo la realtà.
C'è un nuovo Medio Oriente. Solo che non è quello immaginato dagli utopisti post-guerra Fredda e post-Oslo. È molto più complicato di così e molto più pericoloso. Il vero "nuovo Medio Oriente" è una regione in cui gli arsenali crescono e i redditi diminuiscono; dove l'intransigenza araba nei confronti di Israele si sta consolidando e il fondamentalismo islamico guadagna terreno; e dove nuovi regimi canaglia, come l'Autorità Palestinese, il Sudan e l'Afghanistan, si stanno aggiungendo a quelli vecchi.
C'è anche un profondo cambiamento in atto, per lo più invisibile, che vede la formazione di due blocchi, uno che è amico dell'Occidente e l'altro che, in genere, non lo è. In un mondo non più dominato dalla rivalità fra Stati Uniti e Unione Sovietica, il Medio Oriente si sta rapidamente dividendo in due blocchi di potere regionali. La formazione di tali blocchi, o compagini, è uno sviluppo con profonde implicazioni per la regione e per l'intero mondo del dopo guerra Fredda.
Al centro di un blocco stanno Turchia e Israele, partner naturali. Entrambi non sono arabi né democratici e neppure filo-occidentali. Ciascuno mantiene un grande esercito e deve affrontare una grave minaccia di terrorismo. E ognuno ha problemi con Siria e Iran, i due Paesi che stanno al centro del blocco opposto.
Da quando l'Ayatollah Khomeini è salito al potere a Teheran, nel 1979, Damasco e Teheran sono stati i più stretti alleati l'una dell'altra, per il semplice motivo che hanno una miriade di avversari in comune. Per entrambe, gli Stati Uniti sono una potenza imperialista che cerca di dominare il Medio Oriente, depredare le sue risorse naturali, schiavizzare la sua gente e reprimere la sua cultura autoctona. Per entrambe, Israele, "l'entità sionista" è un sostituto degli Stati Uniti a un livello più territoriale e, semmai, più minaccioso. Per entrambe, la Turchia è il membro della NATO loro vicina, che rappresenta una sfida irritante e costante. In altre parole, alla maniera tradizionale del Medio Oriente, gli Stati collaborano con il nemico del loro nemico.
Se il nucleo di ogni blocco è costituito da una coppia di Paesi, intorno a loro si trova un'ampia rete a maglie larghe di compagni di squadra. In seno allo stesso Medio Oriente, Turchia e Israele fanno innanzitutto affidamento sulla Giordania. Altri potenziali membri di questa squadra sono il Kuwait e gli Emirati Arabi Uniti. Dalla parte opposta, Siria e Iran possono contare su un gruppo numericamente più ampio di compagni di squadra regionali. La Grecia occupa una posizione di rilievo analoga a quella della Giordania. Inoltre, la Repubblica di Cipro, a maggioranza greca, l'Autorità Palestinese e i musulmani del Libano pendono dalla parte siro-iraniana. Le relazioni con l'Iraq stanno migliorando, e lo stesso vale per la Libia e il Sudan.
Forse la cosa più impressionante è quanto questa rete si estenda al di là del Medio Oriente. La vecchia logica de "il nemico del mio nemico è mio amico" ha contribuito a creare alcuni singolari raggruppamenti di compagni di squadra in luoghi lontani. Nel Caucaso, l'Azerbaijan e la Georgia si allineano con la Turchia, e l'Armenia con l'Iran. Nei Balcani, Macedonia, Bosnia, Slovenia e Croazia tendono dalla parte della Turchia; la Serbia verso la Grecia e quindi verso Siria e Iran. Poi c'è l'Asia centrale, dove Kazakistan, Kirghizistan, Turkmenistan e Uzbekistan si schierano con la Turchia, il Tagikistan con l'Iran, mentre la Russia appoggia l'asse siro-iraniano.
Infine, in Asia meridionale, la ricerca a lungo termine di Israele di stringere migliori legami con l'India ha riscontrato un maggiore successo ora che quel Paese è sotto la gestione nazionalista indù. Il Pakistan, nel frattempo, si è schierato con Siria e Iran, anche se il legame si è logorato a causa dei talebani afghani che sono allo stesso tempo clienti del Pakistan e nemici giurati dell'Iran. In varia misura, il Pakistan ha anche portato con sé la Birmania e lo Sri Lanka, che stanno cercando di compensare il potere indiano. La Cina si allea con il Pakistan per controllare l'India, il che oggettivamente la colloca anche dalla parte di Siria e Iran.
È superfluo dire che tutte queste relazioni sono soggette ai cambiamenti dettati dalla convenienza e dal vantaggio tattico. Ciò che è impressionante, tuttavia, è la misura in cui la logica de "il nemico del mio nemico" può prevalere anche su fattori così potenti come la religione o l'ideologia condivisa. Pertanto, la Repubblica islamica fondamentalista dell'Iran sostiene i cristiani armeni e i cristiani greco-ciprioti contro i turchi musulmani dell'Azerbaigian e di Cipro, mentre i democratici greco-ciprioti di fede cristiana trovano alleati fra i terroristi curdi musulmani. Perciò, i baathisti laicisti e nazionalisti arabi della Siria collaborano con l'Iran sciita contro i loro compagni baathisti in Iraq. E così gli ebrei israeliani e gli armeni cristiani, due alleati apparentemente naturali con storie e valori paralleli, non sono d'accordo su quasi nulla perché i primi si schierano con la Turchia e i secondi contro di essa.
Per quanto sia da considerarsi uno sviluppo positivo la comparsa di un legame fra Turchia e Israele e il suo successivo ampliamento, l'unico sviluppo davvero promettente nella regione, il futuro rimane costellato di minacce. L'espansione stessa delle due squadre implica che la guerra, se dovesse scoppiare, ora può diffondersi sempre più, mentre le crisi locali si intrecciano e la posta in gioco si fa più alta lungo tutta la linea.
Quando nel 1988 scoppiò il conflitto tra Armenia e Azerbaigian, esso venne isolato e nessuno dei Paesi vicini fu coinvolto. Oggi, non è più così. Il problema di Cipro ha avuto per lungo tempo poche ripercussioni: ora potrebbe essere il fiammifero che accende la miccia nella polveriera.
Ed è qui che entra in gioco l'Occidente. Washington sostiene e incoraggia ufficialmente i legami turco-israeliani, ma non c'è da stupirsi del fatto che in alcuni ambienti i Paesi filo-occidentali cooperanti incontrino freddezza. Pertanto, secondo un editoriale del Washington Post, che sembra essere stato scritto a Damasco, il problema delle relazioni turco-israeliane è che esse potrebbero "ridurre la necessità percepita dagli israeliani di negoziare accordi all'interno di quel perimetro con i palestinesi e la Siria".
Alla fine, e senza fare nulla, ci siamo trovati di fronte a un gruppo di partner realmente cooperativi, in una parte del mondo in cui i nostri amici che la pensano allo stesso modo, per quanto coraggiosi possano essere, sono ahimè pochi. La domanda che attende ancora una risposta è se abbiamo l'arguzia, la lungimiranza e il coraggio di cogliere l'opportunità davanti a noi e, invece di porre ostacoli o farci da parte, aiutare questi partner a fronteggiare i loro nemici e costruire un futuro in cui loro e noi possiamo vivere.