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In un lungo e sfacciato lamento, la Ali-Khan racconta la sua vita trascorsa in dodici città americane in cui è vissuta dalla sua nascita in Florida nel novembre 1974, usandole come strumenti per attaccare in vari modi gli Stati Uniti. Basandosi sul noto metodo retorico che consiste nel contrapporre ideali e realtà, questa donna di estrema Sinistra che a volte indossa l'hijab, nata da genitori immigrati pakistani, scopre in ognuna di queste città una depravazione dal sapore diverso.
Si prenda, ad esempio, Philadelphia, dove vive questo recensore. Il capitolo che la riguarda inizia con l'11 settembre, che ebbe luogo quasi contemporaneamente al trasferimento in città dell'autrice. Piuttosto che condividere l'indignazione dei suoi concittadini per l'omicidio di tremila americani da parte dei jihadisti, la Ali-Khan adotta una posizione molto differente, considerando al-Qaeda "un gruppo terroristico internazionale che affermava di parlare a nome dei musulmani" e lamentandosi di come "il mio Paese" abbia rivolto immediatamente "la loro rabbia verso i musulmani". (Scusate gli errori di grammatica che lasciano costantemente a desiderare in questo libro.)
Quando il governo statunitense ha risposto all'attacco con la guerra ai talebani, la Ali-Khan ha "immaginato cosa avrebbero significato gli attacchi americani per i civili afgani" e ha scritto "mi ha sgomentato la vendetta e la sete di sangue sbagliate del mio Paese". (Da notare la ripetizione beffarda di "il mio Paese".) Ne è conseguito che: "la nostra nazione ha distrutto un elevato numero di civili musulmani in Afghanistan e in Iraq". Peggio ancora, l'autrice scrive che il suo Paese "ha aperto il campo di tortura a Guantanamo".
In un modo tipico del suo approccio, la Ali-Khan scrive che gli attacchi dell'11 settembre e il distacco da un'amica d'infanzia "mi hanno fatto sentire come se non avessi la pelle, come se fossi una sopravvissuta a un'ustione", un'autocommiserazione questa che contrasta con una notevole assenza di pietà per le vere vittime dell'11 settembre, molte delle quali hanno subito non solo ustioni immaginarie, ma anche una morte reale. Quando poi l'autrice finisce per accantonare l'affascinante argomento autobiografico rivolge quasi invariabilmente l'attenzione ai presunti peccati di quella "America bianca" menzionata nel sottotitolo del libro. "Le istituzioni, le arterie e i quartieri" di Philadelphia vengono definiti come gli "sforzi compiuti in due secoli per mantenere la segregazione e proteggere la prosperità dei bianchi, erodendo o impedendo la prosperità dei neri", come se nulla fosse mai cambiato.
Quelli che cercano un'invettiva dozzinale contro l'America si diletteranno nella lettura di A Good Country. Per tutti gli altri, questo libro è da evitare.