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Prakash, visiting assistant professor di qualcosa chiamato Studi Globali e Internazionali presso il Middlebury College, menziona Edward Said enumerando un noioso elenco di peccati commessi in cinquant'anni da parte dei francesi nei confronti dei loro immigrati nordafricani. Prakash afferma che la polizia di Parigi nel 1925-1975 considerava i nordafricani "intrinsecamente violenti, predisposti alla criminalità, irrazionali e infantili" e che queste opinioni erano frutto della loro "produzione di conoscenza coloniale" che classificava i nordafricani come "indisciplinati, irrazionali, fanaticamente e dogmaticamente vincolati all'Islam e intrinsecamente inclini alla violenza". Tale razzismo ha poi giustificato l'ipocrisia, lo sfruttamento, la sorveglianza, l'ingiustizia e la violenza.
L'autore esordisce riportando un episodio del 1961 quando i poliziotti fecero irruzione nell'abitazione di un certo Mohammed Drici, lo picchiarono e poi, mentre veniva condotto alla locale stazione di polizia "gli spararono da dietro una pallottola nel collo. L'uomo sopravvisse miracolosamente. Nonostante le ferite riportate, Drici non venne immediatamente trasportato in ospedale, ma fu condotto a forza nel locale commissariato di polizia, dove venne nuovamente picchiato e preso a calci da altri poliziotti ausiliari e da normali agenti". Prakash dipinge questa brutalità inspiegabile come tipica della vita dei nordafricani a Parigi.
Tuttavia, da recensore mi chiedo: se la vita a Parigi assomigliava a quella vissuta in un campo di concentramento, perché i nordafricani si stabilirono lì? Dopotutto, nessuno di loro era un autoctono francese, nessuno li obbligava ad andarci e sapevano che lì non erano particolarmente i benvenuti. Prakash ci informa che, già dal 1870 in poi, "la paura e il desiderio di arginare la migrazione asiatica resero il migrante straniero oggetto di sospetto e di preoccupazione per molti Stati". Così, nel 1888 e nel 1893, ad esempio, i decreti obbligavano gli stranieri a registrarsi. Il numero degli immigrati è aumentato a un ritmo lento. E ancora nel 1912, un'indagine ufficiale rilevava soltanto 4-5 mila algerini residenti in tutta la Francia. Successivamente, rispondendo al bisogno di manodopera durante la Prima guerra mondiale, 132 mila nordafricani si trasferirono in Francia nell'ambito di "uno dei primi programmi ufficiali per lavoratori ospiti in Europa". Un secolo dopo, il loro numero è forse trenta-quaranta volte maggiore e comprende famiglie multigenerazionali.
Inspiegabilmente, Prakash non affronta il paradosso della massiccia immigrazione nordafricana in una Parigi spietata. Magari lo ignora perché questo paradosso mina il ritratto irrimediabilmente cupo da lui dipinto.