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Colpita dal contrasto tra la Turchia obsoleta che aveva scoperto nei libri letti prima di recarvisi di persona e la nuova Turchia che ha trovato al suo arrivo, la Vuorelma ha trasformato questa discrepanza in un libro, dove affronta minuziosamente questo presunto problema dei media, dell'analisi politica e dell'opinione pubblica. Per essere più intelligibile, il titolo del libro sarebbe potuto essere "Un secolo di stereotipi stranieri sulla Turchia".
L'autrice, ricercatrice dell'Università di Helsinki, espone il suo punto di vista già a pagina 3 citando Edward Said di cui prende le parti senza mai discostarsi da lui minimamente. Ad esempio, i testi su cui la Vuorelma fa affidamento riguardo alla Turchia "vengono letti come descrizioni non soltanto a livello internazionale, ma anche a livello stesso dell'Occidente". L'autrice si interessa molto di più alla "libera comunità epistemica composta da giornalisti, studiosi, diplomatici e politici" che ad Atatürk ed Erdoğan.
La Vuorelma divide l'epoca oggetto dello studio in cinque parti (fino al 1952, fino al 1991, fino al 2003, fino al 2011, e la fase attuale) che però sono meno importanti delle "quattro tradizioni narrative" che secondo l'autrice sono "già evidenti ai primi del Novecento" e oggi ancora presenti. Questa continuità "mostra che le convinzioni che promuovono sono radicate e durature". Tali tradizioni presentano "la Turchia come un Paese che (1) 'noi' stiamo potenzialmente perdendo; (2) che si trova a un bivio decisivo; (3) che è guidato da uomini forti che incarnano lo Stato e (4) che è costantemente minacciato da un'islamizzazione strisciante".
L'analisi suona perspicace. Ma questa tesi è confutata in modo magistrale da Matthew deTar, il quale, in uno studio di qualità ben superiore e intitolato Figures That Speak: The Vocabulary of Turkish Nationalism (Syracuse: Syracuse University Press, 2022), afferma che le continuità della storia turca sono una realtà e non soltanto il risultato di una comprensione limitata da parte degli stranieri. Come sintetizzato nel blurb del suo libro, "Se in superficie, la politica turca è cambiata radicalmente nel corso dei decenni, i termini utilizzati per classificare questi cambiamenti rimangono costanti: l'Europa, l'Islam, le minoranze, l'esercito, il padre fondatore (Atatürk)".
Al di là della sua tesi errata, la Vuorelma distorce gli scritti del suo saggio per adattarli alle quattro "tradizioni narrative". Prendiamo, ad esempio, un articolo apparso nella rivista National Interest nel 1994, titolato "Islam's Intramural Struggle", che l'autrice menziona nel suo libro, un articolo che conosco bene, essendone io l'autore. La Vuorelma afferma che "le convinzioni che caratterizzano la tradizione narrativa della 'perdita della Turchia' sono presenti nell'analisi di Pipes".
Ma basta dare un'occhiata al mio articolo per rendersi conto che è tutto il contrario. Presento la Turchia (pre-Erdoğan) come un Paese pieno di "musulmani fiduciosi di imparare dagli stranieri, orientati alla democrazia e pronti a integrarsi nel mondo". Descrivo la Turchia come un Paese che gode di "una filosofia del laicismo molto ben formulata e largamente accettata" e che viene considerata "il grande successo del mondo musulmano". Inoltre, "il modello turco minaccia di minare l'esperimento khomeinista così come il modello occidentale ha finito per indebolire l'esperimento sovietico". Esorto i turchi "a emulare i mullah e a diffondere le proprie idee nel mondo musulmano" e invito Washington "a incoraggiare i turchi a tenere duro". In breve, invito i turchi a promuovere le loro idee con maggiore forza. Dov'è qui il tema della "perdita della Turchia"? Solo nella fantasia della Vuorelma.
La Vuorelma ha un'ascia da affilare e, come troppi accademici, non lascia che fatti banali interferiscano con la sua mola.