Il sito web del libro.
Pubblicato in collaborazione con il King Faisal Center for Research and Islamic Studies.
Come il sottotitolo lascia intendere in modo non troppo sottile, Kéchichian e Alsharif hanno un obiettivo apologetico da raggiungere in questo studio pubblicato sotto gli auspici di un'istituzione monarchica saudita. Contrariamente alla fama del Regno di mantenere chiusi i confini e di parsimonia, gli autori sostengono che esso abbia accolto i profughi e abbia speso cifre generose per loro. Gli autori chiariscono di aver scritto Sa'udi Policies per contrastare quelle che considerano delle critiche ingiuste, menzionando molti detrattori con tono offeso. Essendo io uno di quei critici, uno che ha scritto ripetutamente su questo argomento dal 2013, qui in veste di recensore ho un vivo interesse a vedere la contro-argomentazione a quanto segue.
In quanto non firmataria della Convenzione delle Nazioni Unite del 1951 sullo status dei rifugiati e del successivo Protocollo opzionale del 1967, Riad non etichetta i rifugiati come tali ma piuttosto come "fratelli e sorelle". A causa di questa differenza semantica, il mondo esterno è cieco di fronte alle generose e lungimiranti politiche di immigrazione e integrazione del Paese. Ad esempio, invece di stipare i rifugiati in campi isolati a marcire, le autorità saudite li sparpagliano nel Paese, danno loro istruzione e opportunità di lavoro, li naturalizzano e li trasformano in sudditi sauditi produttivi. Kéchichian e Alsharif, entrambi specialisti non accademici di Arabia Saudita, affermano la presenza di un numero molto consistente di tali rifugiati provenienti da molti Paesi, come 500 mila Rohingya e 2,5 milioni di siriani.
Come recensore non posso accertare la verità di cifre così elevate; posso solo giudicare la loro credibilità. E qui le cose crollano per mancanza di precisione. In un libro di 362 pagine, gli autori non forniscono informazioni sull'afflusso annuale di rifugiati, sul loro profilo demografico, sulle loro destinazioni all'interno dell'Arabia Saudita, sui loro percorsi educativi, sulle loro qualità lavorative, sulla loro posizione socioeconomica, sulle loro interazioni con la popolazione autoctona, sui loro rapporti con altre comunità di immigrati, sui loro legami con lo Stato o su qualsiasi altra cosa.
Questa radicale mancanza di dettagli rende difficile credere agli impressionanti dati statistici riportati in modo sconsiderato nel libro. Sicuramente, uno studio che dimostri che i critici si sbagliano dovrebbe dedicare molto meno spazio ai trattati, alle citazioni coraniche e alle disquisizioni della legge islamica, e molto di più alle peculiarità della vita dei rifugiati, comprese le fotografie e le storie personali. Fino a quando i rifugiati non animeranno uno studio futuro, occorre nutrire un cauto scetticismo in merito alla posizione ufficiale saudita di cui parlano Kéchichian e Alsharif.