La recente dichiarazione dell'Organizzazione per la Liberazione della Palestina inerente la creazione di uno Stato indipendente e la decisione degli Stati Uniti di avviare un dialogo con l'OLP hanno indotto numerosi americani a credere che alla fine un popolo sfortunato riuscirà a percorrere la strada della pace e della prosperità. Se solo i palestinesi potessero godere dei benefici di uno Stato sovrano, i problemi del Medio Oriente svanirebbero e ognuno di noi ne trarrebbe vantaggio.
Questo argomento piace molto agli americani, poiché siamo noi che, a partire dall'epoca di Woodrow Wilson, abbiamo strenuamente sostenuto il diritto all'autodeterminazione nazionale.
Ma le vibranti parole pronunciate dai portavoce palestinesi sono vuote; chiunque pensi che l'indipendenza nazionale sia la strada per la felicità, ignora alcune delle più importanti lezioni impartite negli ultimi decenni. A prescindere da cosa se ne pensi dell'occupazione israeliana, sarebbe un grosso errore riporre delle grandi speranze in uno Stato palestinese indipendente. In effetti, se esso arriverà a esistere, avremo tutte le ragioni per pensare che ciò sarà fonte di nuove tribolazioni per i palestinesi e per altre popolazioni.
Nel corso degli ultimi duecento anni, gli appelli nazionalisti alla liberazione e all'indipendenza ebbero uno straordinario impatto a livello mondiale. Per due terzi di questo secolo, essi assunsero un particolare vigore nel mondo non occidentale, quando gli imperi coloniali si frantumarono e scomparvero. In parte, ebbero una vasta eco perché la rivendicazione dell'indipendenza nazionale includeva anche altre promesse. L'autodeterminazione non fu fine a se stessa, ma il mezzo per ottenere tutta una serie di grossi vantaggi, inclusa la giustizia sociale, la riforma scolastica, la rinascita culturale e la dignità individuale. L'indipendenza apporterebbe molto più che un cambiamento di sovranità: essa sanerebbe i torti del passato e garantirebbe un avvenire migliore.
Così, in India, il Partito del Congresso profetizzò che il paese sarebbe diventato prospero e potente dopo la partenza dei britannici. Il partito comunista cinese sovvertì il vecchio ordine per perseguire una nuova civiltà. Ho Chi Minh riorganizzò le truppe vietnamite evocando la visione di una società giusta. In altri luoghi nel mondo – in Indonesia, Algeria, Tanzania – tali aspirazioni spinsero larghe masse a combattere e a morire per l'indipendenza e per i vantaggi attesi.
Ovviamente, i nazionalisti ottennero ciò che volevano. Con la sola eccezione dei russi (che mantennero le loro colonie ribattezzandole "repubbliche socialiste"), gli europei cedettero il loro potere quasi dappertutto. Dopo aver preso il posto dei colonialisti, i leader nazionalisti non tardarono a tradurre i loro sogni di lunga durata in realtà.
E quale è stato il risultato? Dopo una generazione o due di regno nazionalista, è doloroso ricordare le luminose speranze un tempo riposte nell'indipendenza nazionale. Nessuno di quei governi ha raggiunto i suoi obiettivi. Le guerre e gli scontri tra comunità sono divenuti endemici in molti paesi. Man mano che ci fu un intensificarsi degli atti di repressione, le carceri si riempirono di prigionieri politici. Gli stati che beneficiavano di importanti riserve finanziarie al momento dell'instaurazione dell'indipendenza – come il Ghana e l'Egitto – divennero rapidamente dei debitori. Il tasso di analfabetismo rimase ovunque elevato, mentre l'ottusa interferenza politica generò il declino degli standard culturali. I redditi rimasero bassi e le disparità sociali finirono con l'aumentare.
La giustizia sociale rimase una speranza illusoria, raramente realizzata. La vera democrazia fu messa a repentaglio in vaste aree del mondo. Il nobile obiettivo dell'autodeterminazione finì con l'acquisire il significato del sostituire un dittatore straniero con uno del luogo.
Confrontare le speranze di ieri con la realtà odierna non è un compito invidiabile, poiché di fatto ogni aspirazione nutrita in passato adesso è obsoleta. Paragonare le condizioni odierne del Terzo mondo a quelle di mezzo secolo fa è un esercizio ancor più misero, in effetti pochi governi sono riusciti a eguagliare i loro predecessori coloniali nell'ambito economico, politico o amministrativo.
Gli stati mediorientali rientrano in questo schema, oltre a soffrire di suppletivi malanni loro peculiari, dal momento che questa regione è vittima di una specifica sventura caratterizzata dalla violenza e dalla volatilità politica. I governanti militari sono i dominatori, la minaccia del terrorismo incombe su ogni aereo e sulla costruzione dei governi, e la regione è diventata un terreno di test internazionali per la creazione di nuove armi. La regione oggi ospita simultaneamente non meno di tre grossi conflitti (arabo-israeliano, tra l'Iraq e l'Iran, in Afghanistan) e cinque di minore entità (Sahara occidentale, Ciad, Cipro, Libano e i curdi). Oh sì, i paesi esportatori di petrolio godono di una spettacolare crescita economica, ma la loro è un'anomala ricchezza che non è in grado di durare o di produrre un benessere reale e durevole.
Questo sconfortante resoconto deve influenzare la nostra visione di uno Stato palestinese. È semplicemente troppo tardi per perpetuare le vecchie e ingenue speranze. Oggi, sappiamo perfettamente quali sono le scelte con le quali dovrà confrontarsi un nuovo governo mediorientale. Questo ultimo sarà simile all'Iran se adotterà il modello musulmano fondamentalista di estremismo religioso? Oppure somiglierà al modello iracheno – un misto di guerra civile e di repressione quasi assoluta? Ovvero al modello siriano, in cui il governo fa appello alla forze aeree per distruggere una delle sue città più grandi, trucidando migliaia di inermi abitanti? Al modello libanese di anarchia e stragi? A quello giordano di un mite Stato di polizia in seno a un deserto culturale? Oppure al modello saudita di una monarchia arcaica che con concede spazio alcuno ai diritti individuali? O al modello egiziano di uno Stato retto da un governo militare, che non concede il diritto di voto ai suoi cittadini e che cela l'indigenza?
Queste scelte costituiscono le alternative realistiche cui i cittadini di un potenziale Stato palestinese devono far fronte. E se l'OLP fosse alla guida di questo Stato, sapremo ancora meglio cosa li attenderebbe. L'operato dell'OLP, a partire dalla sua fondazione avvenuta nel 1964, è stato quello esecrabile di una leadership arrogante che ha governato con un pugno di ferro e senza curarsi degli interessi dei palestinesi non facenti parte dell'OLP stessa. Se l'Organizzazione arriverà al potere, non c'è alcun motivo di aspettarsi il cambiamento di un'attitudine oramai consolidata.
Come asserisce Sidney Zion: "Se ci fosse uno Stato palestinese a Gaza e in Cisgiordania, credete che gli arabi sarebbero liberi? Non esiste uno Stato arabo libero al mondo".
Queste fosche prospettive invitano a prendere in esame con prudenza le allettanti visioni prefigurate dai portavoce palestinesi. Dobbiamo ricordarci che molte volte in passato sono state proposte delle prospettive altrettanto rosee, allo scopo di creare dei regimi oppressivi e delle società depauperate. I melliflui partigiani del nazionalismo palestinese vendono per strada l'equivalente politico dell'olio di serpente. Le malie seduttrici del nazionalismo di solito risultano essere un preludio allo stupro: non giova a nessuno – né ai palestinesi né agli israeliani e neppure agli americani – infatuarsi di questo mito romantico.