Già nel 1980 era evidente che l'epoca degli eroici successi americani nel conflitto arabo-israeliano era giunta al termine.
Senza dubbio, i funzionari americani impegnati nell'attuale ciclo di diplomazia arabo-israeliana ripensano agli anni Settanta con malinconia e con un pizzico di invidia. Ovviamente, quello fu un momento difficile, con due embarghi petroliferi, arroganti potentati del petrolio e un drammatico senso di forza americana in declino. Ma fu anche un'epoca epica, anni esaltanti in cui gli americani realizzarono i loro più grandi successi diplomatici in due secoli.
Il periodo d'oro iniziò pochi giorni dopo la conclusione della guerra dell'ottobre 1973. All'apice di tale periodo, Henry Kissinger fece la spola tra Gerusalemme, Il Cairo e Damasco; in seguito, Jimmy Carter si rifugiò nei boschi del Maryland con i leader dei due Paesi belligeranti del Medio Oriente. Tale periodo aureo si concluse nel marzo del 1979, quasi bruscamente come era iniziato, con la firma di un trattato di pace tra Egitto e Israele sul prato della Casa Bianca.
L'ultimo anno della presidenza di Jimmy Carter, il 1980, vide l'inquilino della Casa Bianca e i suoi collaboratori sempre più amareggiati per gli accordi di Camp David e per la loro eredità. I successivi sforzi americani furono vani. L'amministrazione di Ronald Reagan iniziò con grandi speranze ma con la proposta del cosiddetto Piano Reagan, nel settembre 1982 (un tentativo di collegare i palestinesi con la Giordania), tali speranze non ebbero seguito. Se fossero state necessarie ulteriori conferme, queste arrivarono pochi mesi dopo, quando il segretario di Stato George P. Shultz trascorse due settimane (molto spesso dimenticate) facendo la spola tra le capitali del Medio Oriente, spendendosi in un impegno paragonabile a quello di Kissinger.
Shultz mediò un accordo tra libanesi e israeliani, che fu immediatamente annullato e che finì per valere a malapena il foglio di carta su cui era scritto. Usando un'espressione del tempo, Shultz si era "bruciato". Io direi che l'iniziativa divenne un'opera buffa.
Questo duplice fallimento delle ambizioni mediorientali dell'amministrazione ebbe importanti implicazioni per gli anni a venire. All'inizio del 1984, il segretario di Stato americano aveva guadagnato un sano rispetto per le complessità della regione e si era tenuto in gran parte e benevolmente lontano. Paradossalmente, i quattro anni successivi furono tra i migliori in assoluto per il governo degli Stati Uniti in Medio Oriente. Probabilmente, nei quarantacinque anni trascorsi da quando Washington divenne un attore importante, la sua politica nei confronti del conflitto arabo-israeliano non è stata altrettanto stabile e di successo.
Alla fine, sembrava che Washington si fosse resa conto che la sua forza risiedeva nelle alleanze con gli Stati democratici della regione, Turchia e Israele, in particolare, e non con la gamma esotica di presidenti, re ed emiri che governavano dispoticamente. Per una volta, il rapporto sempre instabile con Israele raggiunse la maturità. I soliti problemi non causavano più crisi. Erano finiti gli anni della "rivalutazione" e del contenzioso. Meglio ancora, i funzionari americani avevano finalmente appreso che il conflitto arabo-israeliano non era l'unico problema in Medio Oriente, né il più grande o il più prioritario.
Purtroppo, quest'epoca di stabilità e di lungimiranza si concluse a metà del 1988, a causa di una combinazione dell'Intifada palestinese iniziata nel dicembre 1987 e della rinuncia di re Hussein di Giordania alle rivendicazioni sulla Cisgiordania, nel luglio 1988. Ciò accelerò una sequenza di azioni dell'amministrazione Reagan culminate cinque mesi dopo nell'apertura di un dialogo con l'Organizzazione per la Liberazione della Palestina di Yasser Arafat.
In risposta, Shultz fece quattro viaggi in Medio Oriente. Ancora una volta, il segretario non aveva altro da mostrare che un fallimento. Perciò, nell'ultimo semestre del suo mandato, Shultz tentò una strada completamente nuova: piuttosto che trattare con gli Stati, come aveva fatto in tutti e tre i suoi precedenti tentativi, si sarebbe occupato dell'Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP), l'attore ampiamente considerato dalla parte araba come il cuore della questione. Diversi mesi di negoziati precedettero l'apertura formale di un dialogo degli Stati Uniti con l'OLP, nel dicembre 1988.
Shultz ha lasciato l'incarico nel gennaio 1989, lasciando però in eredità il nascente dialogo tra gli Stati Uniti e l'Organizzazione per la Liberazione della Palestina al suo successore, James Baker III, che non ha seguito il saggio percorso precedente di Shultz, ma la nuova direzione dei suoi ultimi mesi. In effetti, il tentativo di indurre l'OLP a instaurare un rapporto di lavoro con Israele è diventato l'obiettivo principale della diplomazia di Washington in Medio Oriente. Tale obiettivo ha caratterizzato l'impegno dell'amministrazione George Bush per rimettere in moto la diplomazia. Purtroppo, questo ha segnato un ritorno alla tensione vecchio stile con Israele e alle vecchie illusioni su ciò che i governi arabi possono fare per gli Stati Uniti.
Queste sono le speranze. In effetti, "il processo" (di pace) è talmente fermo che Yasser Arafat minaccia persino di interrompere i colloqui con Washington, un'idea allarmante, visto quanto Arafat abbia lavorato a lungo e sodo per farli proseguire. Con immensa frustrazione di tutti coloro che sperano in una svolta diplomatica, il processo di pace rischia di diventare un'irrilevante discussione fiume. L'azione principale sembra essere sempre più sul campo: le battaglie in corso in Libano, i silenziosi omicidi di "collaboratori" in Cisgiordania e l'evidente capacità degli israeliani di convivere da anni con l'Intifada.
Guardando al futuro, ci sono tutte le ragioni per aspettarsi che le delusioni del governo americano continuino. Il motivo è semplice: il presidente Bush e il segretario di Stato Baker agiscono sulla base di due convinzioni dubbie, se non addirittura false. Quando si tratta di mezzi, Washington presume che la dimensione israelo-palestinese sia la chiave del conflitto; sulla questione dei fini, presuppone che sia possibile un compromesso tra israeliani e palestinesi. Finché l'amministrazione parte da queste convinzioni, è improbabile che la sua diplomazia vada da qualche parte. Ma se dovesse andare oltre, gli Stati Uniti avranno di nuovo un ruolo importante da svolgere in Medio Oriente.
In tal modo, gli anni Ottanta si sono conclusi con le relazioni tra Stati Uniti e Israele più o meno impantanate nello stesso punto morto in cui erano iniziate.