Gli eventi dell'11 settembre hanno intensificato un dibattito di lunga data: cosa spinge i musulmani a rivolgersi all'Islam militante? Alcuni analisti hanno notato la povertà dell'Afghanistan e hanno concluso che qui sta il problema. Jessica Stern dell'Università di Harvard ha scritto che gli Stati Uniti "non possono più permettere agli Stati di fallire". Se non si dedicherà una priorità molto più alta alla salute, all'istruzione e allo sviluppo economico all'estero, scrive, "continueranno a sorgere nuovi Osama". Susan Sachs del New York Times osserva: "Com'era prevedibile, i giovani delusi dell'Egitto e dell'Arabia Saudita si rivolgono alla religione per trovare conforto". In modo più colorito, altri hanno sostenuto di bombardare l'Afghanistan con generi alimentari piuttosto che con degli esplosivi.
Dietro queste analisi si cela il presupposto che il disagio socioeconomico spinga i musulmani all'estremismo. Le prove, tuttavia, non corroborano questa ipotesi. L'Islam militante (o islamismo) non è una risposta alla povertà o all'impoverimento: non solo il Bangladesh e l'Iraq non sono focolai dell'Islam militante, ma l'Islam militante è spesso emerso da Paesi con una rapida crescita economica. I fattori che causano il declino o lo sviluppo dell'Islam militante sembrano avere più a che fare con questioni di identità che con l'economia.
Tutti gli altri problemi svaniscono
La tesi convenzionale – che le difficoltà economiche siano l'origine dell'Islam militante e la crescita economica sia l'antidoto – ha numerosi sostenitori attendibili. Anche alcuni islamisti stessi accettano questa relazione di causa ed effetto. Nelle parole di un impetuoso sceicco cairota, "l'Islam è la religione dei momenti difficili". Un leader di Hamas a Gaza, Mahmud az-Zahar, afferma: "Basta vedere la povera periferia di Algeri o i campi profughi di Gaza per capire i fattori che alimentano la forza del Movimento di Resistenza Islamico". In questo spirito, le organizzazioni militanti islamiche offrono un'ampia gamma di benefici assistenziali nel tentativo di attirare seguaci. Promuovono anche quella che chiamano "economia islamica", come "il più benevolo sistema di solidarietà in una società. In un tale sistema, i giusti non cadono, gli onesti non periscono, gli indigenti non soffrono, i disabili non disperano, i malati non muoiono per mancanza di cure e la gente non si distrugge a vicenda".
Molti musulmani laici presentano come un articolo di fede la tesi secondo la quale l'Islam militante è una conseguenza della povertà. Süleyman Demirel, l'ex presidente turco, afferma: "Finché ci saranno povertà, disuguaglianza, ingiustizia e sistemi politici repressivi, le tendenze fondamentaliste cresceranno nel mondo". L'ex primo ministro turco, Tansu Ciller, ritiene che gli islamisti abbiano ottenuto ottimi risultati alle elezioni del 1994 perché "la gente ha reagito all'economia". Il capo dell'intelligence dell'esercito giordano sostiene: "Lo sviluppo economico può risolvere quasi tutti i nostri problemi [in Medio Oriente]". Compreso l'Islam militante, gli è stato chiesto? Sì, ha risposto: "Nel momento in cui una persona si trova in una buona posizione economica, ha un lavoro e può mantenere la sua famiglia, tutti gli altri problemi svaniscono".
La Sinistra in Medio Oriente concorda, interpretando la rinascita militante islamica come "un segno di pessimismo. Poiché le persone sono disperate, stanno ricorrendo al soprannaturale".
Anche i sociologi sono d'accordo: Hooshang Amirahmadi, un accademico di origini iraniane, sostiene che "le radici del radicalismo islamico devono essere cercate al di fuori della religione, nel mondo reale della disperazione culturale, del declino economico, dell'oppressione politica e dei tumulti spirituali in cui la maggior parte dei musulmani si trova oggi". Il mondo accademico, con la sua persistente disposizione marxista e il suo disprezzo per la fede, ovviamente accetta quasi all'unanimità questa tesi secondo la quale l'Islam militante sarebbe una conseguenza della povertà. Ervand Abrahamian sostiene che "la condotta di Khomeini e della Repubblica islamica è stata determinata più che dai principi delle Scritture dai bisogni sociali ed economici immediati. Ziad Abu-Amr, autore di un libro sull'Islam militante (e membro del Consiglio Legislativo Palestinese) attribuisce la virata palestinese verso la religiosità al "cupo clima di distruzione, di guerra, di disoccupazione e di depressione che induce la gente a cercare consolazione e a dirigersi verso Dio".
Edward Djerejian ha formulato la risposta del governo degli Stati Uniti all'Islam militante. |
Secondo l'ex ministro degli Esteri tedesco Klaus Kinkel, l'Islam militante riflette "la delusione economica, politica e culturale" dei musulmani. L'ex ministro dell'Interno francese Charles Pasqua rileva che questo fenomeno "ha coinciso con la disperazione di un'ampia parte delle masse popolari, e in particolare dei giovani". Il primo ministro maltese Eddie Fenech traccia un legame ancora più stretto: "Il fondamentalismo cresce di pari passo con i problemi economici". Il ministro degli Esteri israeliano Shimon Peres afferma categoricamente che "la base del fondamentalismo è la povertà" e che offre "un modo per protestare contro la povertà, la corruzione, l'ignoranza e la discriminazione".
Con questa teoria di causa ed effetto, gli uomini d'affari a volte fanno investimenti con uno sguardo rivolto al miglioramento politico. Il presidente del Virgin Group, Richard Branson, ha dichiarato in occasione dell'inaugurazione di un negozio di musica a Beirut: "La regione diventerà stabile se le persone investiranno in essa, creeranno posti di lavoro e ricostruiranno i Paesi che hanno bisogno di essere ricostruiti, e non li ignoreranno".
Da qualche parte vicino alla stratosfera
I dati di fatto mostrano poca correlazione tra l'economia e l'Islam militante. Le misure globali di prosperità e le tendenze economiche sbagliano nel predire dove l'Islam militante sarà forte e dove no. Anche a livello di individui, la convinzione comune rileva che l'Islam militante attrae i poveri, gli esclusi e gli emarginati, ma la ricerca mostra esattamente il contrario. Se si considerano i fattori economici che spiegano chi diventa islamista, beh, essi indicano le persone abbastanza benestanti, non i poveri.
Prendiamo ad esempio l'Egitto. In uno studio del 1980, il sociologo egiziano Saad Eddin Ibrahim ha intervistato gli islamisti nelle carceri egiziane e ha scoperto che il militante tipo è "giovane (sulla ventina), di origine rurale o di una piccola città, appartenente alla classe media o medio-bassa, molto motivato e di successo nei suoi sforzi, rampante, con una formazione scientifica o ingegneristica e proveniente da una famiglia normalmente unita. In altre parole, ha concluso Ibrahim, questi giovani erano "decisamente al di sopra della media della loro generazione"; erano "l'ideale o il modello dei giovani egiziani". In uno studio successivo, ha scoperto che su 34 membri del gruppo violento At-Takfir wa'l-Hijra, ben 21 erano figli di funzionari, quasi tutti di livello medio. Più recentemente, il Canadian Security Intelligence Service ha scoperto che la leadership del gruppo militante islamico Al-Jihad "ha in gran parte un'istruzione universitaria ed è appartenente alla classe media". Questi non sono i figli della povertà o della disperazione.
Geraldine Brooks è venuta a sapere che la sua assistente è diventata un'islamista. |
"In Egitto, un nuovo genere di predicatori in giacca e cravatta e con i telefoni cellulari sta attirando un numero crescente di ricchi e potenti allontanandoli dagli stili di vita occidentali e conducendoli verso il conservatorismo religioso. I moderni imam tengono i loro seminari in occasione di banchetti organizzati in alcune delle case più lussuose del Cairo e nelle località balneari egiziane per fare appello al senso dello stile e del comfort dei ricchi".
Quanto detto per l'Egitto vale anche altrove: come il fascismo e il marxismo-leninismo nei loro tempi d'oro, l'Islam militante attrae individui altamente competenti, motivati e ambiziosi. Lungi dall'essere indietro nella società, ne sono i leader. La Brooks, una giornalista che ha viaggiato molto, ritiene che gli islamisti siano "i più dotati" dei giovani che ha incontrato. Tra coloro che ascoltavano l'appello islamico c'erano studenti che godevano di maggiori opportunità, non solo i casi disperati. (...) Erano le élite del prossimo decennio: le persone che avrebbero plasmato il futuro delle loro nazioni".
Anche gli islamisti che arrivano all'estremo sacrificio e rinunciano alle loro vite rientrano in questo modello di benessere finanziario e istruzione avanzata. Un numero sproporzionato di terroristi e attentatori suicidi ha un'istruzione superiore, spesso una laurea in ingegneria e in materie scientifiche. Questa generalizzazione si applica ugualmente agli attentatori suicidi palestinesi che attaccano Israele e ai seguaci di Osama bin Laden che hanno dirottato i quattro aerei nell'attacco dell'11 settembre 2001. Nel primo caso, un ricercatore ha scoperto, guardando i loro profili, che "le circostanze economiche non sembravano essere un fattore decisivo. Sebbene nessuno dei 16 soggetti possa essere descritto come benestante, alcuni stavano certamente lottando meno di altri". Nel secondo caso, come ha asserito sardonicamente lo storico di Princeton Sean Wilentz, le biografie degli assassini dell'11 settembre implicherebbero che le cause principali del terrorismo siano "denaro, istruzione e privilegi". Più in generale, Fathi ash-Shiqaqi, leader fondatore della sanguinaria omicida organizzazione della Jihad islamica, una volta ha commentato: "Alcuni dei giovani che si sono sacrificati [in operazioni terroristiche] provenivano da famiglie benestanti e avevano una carriera universitaria di successo". Questo ha senso, perché gli attentatori suicidi che si scagliano contro nemici stranieri offrono la loro vita non per protestare contro la privazione finanziaria, ma per cambiare il mondo.
Anche coloro che sostengono le organizzazioni militanti islamiche tendono ad essere benestanti. Provengono molto spesso dalle città più ricche anziché dalle campagne più povere, un fatto che, come sottolinea Khalid M. Amayreh, un giornalista palestinese, "confuta l'assunto ampiamente diffuso che la popolarità islamista trae profitto dalla miseria economica". E provengono non solo dalle città, ma anche dai ceti sociali più alti. Talora, un sorprendente 25 per cento dei membri della principale organizzazione militante islamica della Turchia, ora chiamata Saadet Party, era costituito da ingegneri. In effetti, il quadro tipico di un partito militante islamico è un ingegnere sulla quarantina nato in città da genitori che si erano trasferiti dalla campagna. Amayreh rileva che nelle elezioni parlamentari giordane del 1994, i Fratelli Musulmani ottennero ottimi risultati tanto nei quartieri della classe media quanto in quelli poveri. Amayreh ne deduce che "una maggioranza sostanziale di islamisti e di loro sostenitori proviene da ceti socio-economici medi e alti".
Martin Kramer, direttore del Middle East Quarterly, va oltre e vede l'Islam militante come
il veicolo delle contro-élite, persone che, in virtù dell'istruzione e/o del reddito, sono potenziali membri dell'élite, ma che per un motivo o per l'altro ne vengono escluse. La loro educazione può mancare di qualche elemento cruciale che conferisca prestigio; le fonti della loro ricchezza possono essere un po' contaminate. Oppure tali individui possono semplicemente provenire dall'ambiente sbagliato. Pertanto, pur essendo istruiti e ricchi si lamentano che la loro ambizione è bloccata, e non possono tradurre le loro risorse socio-economiche in influenza politica. L'islamismo è particolarmente utile a questi individui, anche perché esso permette, grazie ad abili manipolazioni, di reclutare un seguito tra i poveri, i quali rappresentano un'eccellente fanteria.
Kramer cita le cosiddette Tigri dell'Anatolia, uomini d'affari che hanno avuto un ruolo fondamentale nel sostenere il partito islamico militante turco, come esempio di questa contro-élite nella sua forma più pura.
Non è un prodotto della povertà
Lo stesso schema che vale per i singoli islamisti esiste anche a livello di società. Questo modello sociale può essere espresso da quattro asserzioni.
Innanzitutto, la ricchezza non protegge dall'Islam militante. I kuwaitiani godono di un reddito di tipo occidentale (e devono all'Occidente l'esistenza stessa del loro Stato), ma gli islamisti generalmente ottengono il blocco più ampio di seggi in Parlamento (attualmente venti su cinquanta). La Cisgiordania è più prospera di Gaza, ma i gruppi militanti islamici di solito godono di più popolarità nella prima che nella seconda. L'Islam militante prospera negli Stati membri dell'Unione Europea e in Nord America, dove i musulmani come gruppo godono di un tenore di vita superiore alla media nazionale. E tra quei musulmani, come sottolinea Khalid Durán, gli islamisti hanno redditi generalmente più alti: "Negli Stati Uniti, la differenza tra islamisti e musulmani comuni si riflette essenzialmente attraverso la loro ricchezza: i musulmani hanno il numero e gli islamisti hanno i dollari".
In secondo luogo, un'economia fiorente non protegge dall'Islam radicale. I movimenti militanti islamici di oggi sono decollati negli anni Settanta, proprio quando i Paesi esportatori di petrolio godevano di tassi di crescita straordinari. Muammar Gheddafi sviluppò allora la sua versione eccentrica dell'Islam proto-militante; gruppi fanatici in Arabia Saudita occuparono con violenza la Grande Moschea della Mecca; e l'ayatollah Khomeini prese il potere in Iran (sebbene, bisogna ammetterlo, la crescita fosse rallentata diversi anni prima che rovesciasse lo Scià). Negli anni Ottanta, diversi Paesi che eccellevano economicamente conobbero un boom dell'Islam militante. Giordania, Tunisia e Marocco ebbero buoni risultati economici negli anni Novanta, così come i loro movimenti militanti islamici. Con Turgut Özal, i turchi conobbero quasi un decennio di crescita economica particolarmente impressionante pur unendosi a partiti islamici militanti in numero sempre maggiore.
In terzo luogo, la povertà non genera l'Islam militante . Ci sono numerosi Stati musulmani molto poveri, ma pochi di loro sono diventati centri dell'Islam militante, non il Bangladesh, non lo Yemen e nemmeno il Niger. Come osserva a giusto titolo uno specialista americano, "la disperazione economica, la fonte spesso citata del potere politico dell'Islam, è familiare al Medio Oriente"; se l'Islam militante è legato alla povertà, perché non era una forza più presente in Medio Oriente negli anni e nei secoli passati, quando la regione era più povera di oggi?
In quarto luogo, un'economia in declino non genera un Islam militante. La crisi economica del 1997 in Indonesia e in Malesia non fu accompagnata da un incremento dell'Islam militante. I redditi iraniani diminuirono della metà o più dopo l'arrivo al potere della Repubblica islamica nel 1979, eppure, lungi dall'incrementare il sostegno all'ideologia militante islamica del regime, l'impoverimento causò una massiccia disaffezione dall'Islam. Gli iracheni ebbero un calo ancora più precipitoso del loro tenore di vita: Abbas Alnasrawi stima che il reddito pro capite sia crollato di quasi il 90 per cento dal 1980, riportandolo al punto in cui era negli anni Quaranta. Mentre il Paese ha conosciuto un aumento della pietà personale, l'Islam militante non è cresciuto, né è la principale espressione di sentimenti anti-regime.
Rilevando questi modelli, almeno qualche osservatore ha tratto la conclusione corretta. Saïd Sadi, lo schietto laicista algerino respinge categoricamente la tesi secondo cui la povertà è causa dell'Islam militante: "Non aderisco a questa visione secondo cui il terrorismo è una conseguenza della diffusa disoccupazione e povertà". Allo stesso modo, Amayreh ritiene che l'Islam militante "non è un prodotto o un sottoprodotto della povertà".
Garantire una vita dignitosa
Se la povertà è la causa dell'Islam militante, la soluzione è una crescita economica su vasta scala. E in effetti, in Paesi differenti come l'Egitto e la Germania, i funzionari sostengono che occorre favorire la prosperità e la promozione della formazione al lavoro per combattere l'Islam militante. Al culmine della crisi in Algeria durante la metà degli anni Novanta il governo chiese aiuti economici all'Occidente, lasciando intendere minacciosamente che senza questo aiuto gli islamisti avrebbero prevalso. Questa interpretazione ha ottenuto risultati concreti: per esempio, il governo tunisino ha fatto qualche passo verso un libero mercato, ma non ha proceduto alla privatizzazione per paura che i numerosi disoccupati ingrossassero le fila dei gruppi islamici militanti. Lo stesso dicasi per l'Iran, dove Europa e Giappone modellano politiche basate sull'idea che i loro legami economici con la Repubblica islamica la dominino e la scoraggino di lanciarsi nell'avventurismo militare.
Questa enfasi sull'occupazione e sulla creazione di ricchezza ha anche trasformato gli sforzi per porre fine al conflitto arabo-israeliano durante l'era di Oslo. Prima del 1993, gli israeliani avevano insistito sulla necessità, per giungere a una risoluzione del conflitto, di un riconoscimento preliminare da parte degli arabi dello Stato ebraico come fosse un fatto compiuto. Si pensava che raggiungere questo obiettivo consistesse nell'ottenere il riconoscimento dello Stato ebraico e nel trovare confini reciprocamente accettabili. Poi, dopo il 1993, si verificò un grande cambiamento: l'obiettivo era quello di aumentare la prosperità araba, sperando che ciò avrebbe diminuito il fascino dell'Islam militante e di altre ideologie radicali. Ci si aspettava che un balzo in avanti per l'economia desse ai palestinesi un incentivo a far progredire il processo di pace, riducendo così il fascino di Hamas e della Jihad islamica. In questo contesto, Serge Schmemann del New York Times ha scritto (senza fornire prove) che Arafat "sa che sradicare la militanza alla fine dipenderà più dal fornire una vita dignitosa che dall'uso della forza".
L'analista israeliano Meron Benvenisti concorda: "Il carattere militante dell'Islam deriva dall'espressione della profonda frustrazione degli emarginati. (...) L'ascesa di Hamas è stata direttamente collegata al peggioramento della situazione economica, alle frustrazioni accumulate e al degrado dall'occupazione attuale". E anche Shimon Peres ha dichiarato: "Il terrorismo islamico non può essere combattuto militarmente, ma sradicando la fame che lo genera". Guidati da questa teoria, gli Stati occidentali e Israele hanno contribuito a versare miliardi di dollari all'Autorità Palestinese. E ancor più degno di nota, il fatto che il governo israeliano si sia opposto agli sforzi degli attivisti filo-israeliani negli Stati Uniti nel far dipendere gli aiuti statunitensi all'OLP dall'adempimento da parte di Arafat delle sue promesse formali scritte a Israele.
A questo punto, non occorre sottolineare la falsità delle ipotesi di Oslo. La ricchezza non contrasta l'odio; un nemico prospero può semplicemente essere uno in più capace di fare la guerra. Gli occidentali e gli israeliani pensavano che i palestinesi avrebbero fatto dell'ampia crescita economica la loro priorità, mentre questa è stata una preoccupazione minore. Le questioni centrali erano invece quelle dell'identità e del potere, ma così profonda era la convinzione nella tesi che l'Islam militante fosse prodotto della povertà che anche il fallimento di Oslo non è riuscito a sminuire la fiducia nei benefici politici della prosperità. Pertanto, nell'agosto 2001, un alto funzionario israeliano approvò la costruzione di una centrale elettrica nel nord di Gaza con la motivazione che avrebbe fornito posti di lavoro, "e ogni palestinese che lavora è un paio di mani in meno al servizio di Hamas".
Una tesi diversa
Se la povertà non è la forza trainante dell'Islam militante, ne conseguono diverse implicazioni politiche. In primo luogo, la prosperità non può essere considerata la soluzione all'Islam militante e gli aiuti esteri non possono fungere da strumento principale del mondo esterno per combatterla. In secondo luogo, anche l'occidentalizzazione non offre una soluzione. Al contrario, molti importanti leader islamici militanti non solo conoscono bene i costumi occidentali, ma ne sono esperti. In particolare, un numero sproporzionato di loro ha conseguito dei dottorati in tecnologia e scienze. A volte sembra che l'occidentalizzazione sia un modo per odiare l'Occidente. In terzo luogo, la crescita economica non porta inevitabilmente a un miglioramento delle relazioni con gli Stati musulmani. In alcuni casi (ad esempio, l'Algeria), potrebbe essere d'aiuto; in altri (Arabia Saudita), potrebbe danneggiare.
Piuttosto, non potrebbe essere che l'Islam militante derivi dalla ricchezza anziché dalla povertà? È possibile. Esiste, dopotutto, un fenomeno universale che vuole che la gente diventi più impegnata ideologicamente e politicamente attiva solo quando ha raggiunto uno standard di vita abbastanza alto. Le rivoluzioni avvengono, come è stato spesso notato, solo quando esiste una classe media consistente. Birthe Hansen, professoressa associata presso l'Università di Copenaghen, allude a questo quando scrive che "la diffusione del capitalismo del libero mercato e della democrazia liberale (...) è probabilmente un fattore importante che favorisce l'incremento dell'Islam politico".
Che la ricchezza petrolifera abbia causato il risveglio islamico è un argomento principale del mio libro del 1983, "In the Path of God". |
Al contrario, i musulmani poveri tendono ad essere maggiormente tentati dalle affiliazioni alternative. Nel corso dei secoli, ad esempio, l'apostasia era più frequente durante i periodi sfavorevoli. Successe, ad esempio, quando i tartari caddero sotto il dominio russo o quando i libanesi sunniti persero il potere a favore dei maroniti. Fu così anche nel 1995 nel Kurdistan iracheno, una regione sottoposta a doppio embargo e colpita dalla guerra civile:
Nel tentativo di vivere la propria vita in mezzo al fuoco e alla polvere da sparo, gli abitanti dei villaggi curdi sono arrivati al punto di essere pronti a rinunciare a qualsiasi cosa per salvarsi dalla fame e dalla morte. Dal loro punto di vista, cambiare religione per ottenere un visto per l'Occidente sta diventando un'opzione sempre più importante.
In sintesi, ci sono ottime ragioni per pensare che l'Islam militante derivi più dal successo che dal fallimento.
Un ascensore per il potere
Pertanto, per trovare le cause dell'Islam militante, sarebbe meglio non considerare gli aspetti economici e concentrarsi maggiormente su altri fattori. E sebbene le ragioni di natura materiale si adattino molto bene alla sensibilità occidentale, in questo caso sono inconcludenti. In genere, come osserva David Wurmser dell'American Enterprise Institute, gli occidentali attribuiscono troppi problemi del mondo arabo a "specifiche questioni materiali", come la terra e la ricchezza. Questo di solito implica una tendenza "a screditare le convinzioni e a sminuire il rigoroso rispetto dei principi, liquidandoli come strumenti di un cinico sfruttamento delle masse da parte dei politici. Di conseguenza, gli osservatori occidentali si concentrano sulle questioni materiali e sulle azioni dei governanti e ignorano il lato spirituale del mondo arabo, dove in realtà risiede il cuore del problema". Oppure, per usare la formulazione ripugnante di Osama bin Laden, "poiché l'America ama il denaro, gli americani ritengono che anche gli altri la pensino allo stesso modo".
E in effetti, se si distoglie lo sguardo dai commentatori dell'Islam militante e si presta invece ascolto agli stessi islamisti, diventa subito evidente che raramente parlano di prosperità. Come affermò in modo memorabile l'ayatollah Khomeini, "Non abbiamo creato una rivoluzione per fare abbassare il prezzo del melone". Semmai, guardano con disgusto alle società consumistiche dell'Occidente. Wajdi Ghunayim, un islamista egiziano, le vede come "il regno del décolleté e della moda" il cui comune denominatore è un appello agli istinti bestiali della natura umana. Per gli islamisti, Le risorse economiche non rappresentano la bella vita, ma un'ulteriore forza per combattere l'Occidente. Il denaro serve per formare i quadri e per procurarsi le armi, non per acquistare una casa più grande o un'auto di ultima generazione. La ricchezza è un mezzo, non un fine.
Un mezzo per ottenere cosa? Il potere. Gli islamisti si preoccupano meno della forza materiale che della loro posizione nel mondo. Ne parlano incessantemente. In una dichiarazione tipica, 'Ali Akbar Mohtashemi, il leader della linea dura iraniana, prevede che "alla fine l'Islam diventerà la potenza suprema". Parimenti, Mustafa Mashhur, un islamista egiziano, dichiara che lo slogan "Dio è Grande" risuonerà "finché l'Islam non si diffonderà in tutto il mondo". Abdessalam Yassine, un islamista marocchino, dichiarava "Noi chiediamo il potere" e l'uomo che si frappose sulla sua strada, il defunto re Hassan, arguiva che per gli islamisti l'Islam è "l'ascensore per il potere". Aveva ragione. Riducendo la dimensione economica alle sue giuste proporzioni e apprezzando la dimensione religiosa, culturale e politica, noi possiamo iniziare a comprendere quali sono le cause dell'Islam militante.