Anche se la Khan scrive in un linguaggio pseudo-complesso tipico del postmodernismo (giochi di parole, riferimenti a Homi Bhabha e l'uso insopportabile della prima persona) le quattordici donne intervistate parlano un linguaggio chiaro e semplice raccontando le inevitabili difficoltà della loro vita da musulmane che vivono nella zona di Toronto. Esse sono molto diverse: c'è la pia musulmana e quella che si è convertita all'Ebraismo, ci sono altresì la pakistana e l'anglo-americana che si sono convertite all'Islam. Quello che quasi tutte condividono è l'orgoglio della propria origine musulmana, il dolore per come l'Islam tratta le donne e una certa costernazione per come sono viste dai canadesi che non sono musulmani. La Khan parla di "una presa di distanza, un'avversione, al punto di rifiutare di considerarsi musulmane. Tuttavia, i loro racconti sottintendono una certa nostalgia e il desiderio di un'identità stabile e soddisfacente".
I dettagli sono di grande interesse. La donna che si è convertita all'Ebraismo l'ha fatto quasi in segreto, e ne erano informati solo i familiari. Allo stesso modo, una donna turca nubile, ha finto davanti a tutti di essere sposata e solo i parenti più stretti sapevano che non lo era. Al contrario, una donna pakistana ha deciso di "abbandonare" la comunità musulmana, quando è andata a convivere con un uomo, e questo per non mettere in imbarazzo sua madre. Anche di quest'ultima c'è una testimonianza nel libro: è divorziata e triste perché rifiuta i pretendenti musulmani e perché i non musulmani la considerano troppo pudica a livello sessuale, e di conseguenza si ritrova single. Una donna originaria dell'Uganda difende a spada tratta l'Islam nel mondo esterno per poi criticarlo ferocemente quando si trova fra musulmani. Un'indiana racconta che suo figlio è "molto orgoglioso" di essere musulmano mentre sua figlia ha "più problemi" con la fede islamica. Un'egiziana confessa di aver dato l'Islam per scontato quando viveva in Egitto, ma che poi in Canada l'ha considerato più importante; ed è stato così anche per un'altra pakistana una volta che è arrivata in Canada. Una donna iraniana dichiara che "amava" vivere nell'Iran di Khomeini ma che poi ha dovuto abbandonare il paese a causa della guerra con l'Iraq; poi, però, a Toronto, l'espressione della sua fede si è ridotta a poco più che uno stretto controllo delle proprie figlie. Una donna somala non è soddisfatta della sua vita in Canada e "preferirebbe piuttosto" vivere in un paese musulmano. Una seconda egiziana, un'islamista, insiste sul fatto che "le donne musulmane hanno più diritti" delle loro omologhe canadesi. E infine, chi si è convertito all'Islam ha costatato che il problema maggiore riguardo alla conversione è stato l'abbigliamento, un vero e proprio dilemma per le donne di una certa età ("Ho sofferto molto nei primi diciotto mesi successivi alla conversione perché non sapevo come vestirmi in modo appropriato").