Decenni fa, parlando del fatto che la Mecca sia stata governata per un millennio quasi senza interruzione dalla famiglia hashimita, un autore ha giustamente definito questo "uno dei fenomeni più importanti della storia". Ma ciò è stato fatto nell'ombra, per irrompere sulla scena mondiale solamente con la Prima guerra mondiale e la Rivolta araba. Per dieci anni gloriosi, dai contatti epistolari tra Hussein e McMahon del 1915-16 (in cui Londra appoggiava le aspirazioni hashimite di fondare un califfato panarabo) fino alla conquista saudita del 1924 (che, di fatto, mise fine a quelle aspirazioni hashimite), la famiglia rivendicò plausibilmente il suo diritto a guidare il mondo arabofono. Poi, ci fu il fallimento, quando gli Hashimiti persero la Siria, il califfato, l'Hijaz e (molto più tardi) l'Iraq. Solo il Regno hashimita di Giordania, che era "la modesta vestigia di una grande tradizione", sopravvisse al crollo generale.
In un volume ben concepito e vivace, il Dayan Center dell'Università di Tel Aviv ha preso la gradita iniziativa di esaminare l'esperienza hashimita del XX secolo nel suo insieme. E lo fa in tre parti, ognuna delle quali si occupa del regno dell'Hijaz, dell'Iraq e della Giordania. Oltre all'analisi più convenzionale, come lo studio esemplare di Joseph Nevo sulle memorie del re Abdullah, molti saggi attingono a fonti inusuali o trattano argomenti insoliti. Ami Ayalon interpreta il regno dello Hijaz attraverso i suoi francobolli. Jeffrey A. Rudd (l'unico saggista non-israeliano del volume) trae spunto da un lungo dibattito del governo britannico sulla corretta ortografia del nome Irak o Iraq da dare al nuovo Paese, ravvisando in questo una metafora per dei disaccordi su questioni più ampie. Martin Kramer racconta la storia particolare di Eugène Jung, il sostenitore francese degli Hashimiti. Michael Winter mostra che prima del 1967 i libri di testo giordani erano fra i più radicali del mondo arabo, il che è molto sorprendente vista la politica moderata di quel Paese.