Quando gli antropologi si trovano a corto di esotici membri tribali e di contadini da studiare, concentrano la loro attenzione sulle società urbane apparentemente più conosciute. I risultati sono a volte sorprendenti poiché gli anonimi condomini e gli ordinari mercati accolgono una vasta gamma di usi, costumi e prospettive. Basando il suo studio sull'infertilità femminile ad Alessandria, la Inhorn esplora a fondo il mondo delle donne sterili egiziane, trovando delle informazioni molto interessanti; ad esempio, gli indigenti che abitano nelle città credono che l'uomo metta un feto dentro la donna; apprendere che le donne hanno degli ovuli provoca una reazione scioccata (come per i polli!). Questo volume ci parla della condizione dei bambini in Egitto, della natura mutevole della famiglia, del ruolo della superstizione, della riluttanza da parte degli uomini a lasciare che le loro mogli lavorino e delle opportunità di successo per il controllo delle nascite.
Spiccano diversi punti importanti: le donne egiziane che non possono procreare sono ossessionate dalla loro condizione ("Perché vivo se non ho figli?"), non solo in un contesto familiare e sociale, ma anche perché temono che i mariti le abbandonino (o che si prendano un'altra moglie): "La gente crede che se una donna non ha figli, l'uomo le dà da mangiare invano", osserva una persona intervistata. "Mi affliggo per tutto il tempo", dice un'altra. Ma contrariamente a quanto si pensa, i sondaggi dell'autrice mostrano che i matrimoni senza figli sono solidi.
Un avvertimento: come suggerisce il titolo, la Inhorn confeziona la sua analisi eccellente in un involucro di femminismo prevedibile e noioso, disseminato di numerosi riferimenti ai "rapporti uomo-donna" e al sistema "patriarcale". Per fortuna che l'involucro si rimuove facilmente, lasciando emergere la chicca preziosa che contiene.