Oltre a essere a capo del Dipartimento di Scienze Politiche all'Università del Texas, a San Antonio, l'autore proviene da una delle più illustri famiglie politiche della Libia. (Suo padre fu il primo premier del Paese e un fratello molto più anziano di lui fu ministro degli Esteri negli anni Sessanta, mentre un cugino con un nome simile al suo fu ministro degli Esteri nei primi anni del regime di Gheddafi, per poi diventare leader dell'opposizione ed essere rapito al Cairo nel 1993.) La combinazione di radici libiche, formazione americana e di un'eccellente sagacia assicura una disamina convincente del regime di Gheddafi, che ricorda la brillante analisi di Kanan Makiya sull'Iraq dal titolo Republic of Fear (La Repubblica della paura).
Per "politica di contraddizione" Kikhia intende l'abitudine di Gheddafi di mantenere la Libia in uno stato di "caos controllato". L'autore sostiene che la predilezione per la sperimentazione sociale (la rivoluzione culturale, il Libro Verde, i comitati rivoluzionari, la democrazia diretta, la jamahariya) non era mera eccentricità, e nemmeno follia, ma "un modello di destabilizzazione deliberata" che mantiene l'attenzione dei libici concentrata sulla sopravvivenza personale piuttosto che sulle azioni del regime. Con degli eufemismi Kikhia mostra come il regime di Gheddafi abbia di gran lunga peggiorato le cose rispetto a com'erano sotto la monarchia – dal problema idrico, alla produzione industriale, dalle libertà individuali alla politica estera.
È interessante notare che l'unico ambito non soggetto alle manipolazioni di Gheddafi è "l'ambito tradizionale delle donne libiche: la casa". Kikhia mostra il forte contrasto tra i giovani uomini arrivati al potere nel 1969 esaltati dalla loro ricchezza e una Libia di oggi che lui definisce "il Paese più povero al mondo" perché "non ha i mezzi per rigenerare il capitale " che è stato sprecato. In breve, questo è di gran lungo l'opera migliore che sia mai stata scritta sull'era di Gheddafi.