NEW YORK - «E´ un pessimo rapporto, questo del gruppo di studio sull´Iraq. Ha un approccio burocratico e la tendenza a riciclare vecchie idee fallimentari, senza neanche porsi il problema di capire quali siano i veri interessi strategici degli Stati Uniti. Spero proprio che finisca nel dimenticatoio». Daniel Pipes non usa mezzi termini per esprimere il suo disappunto sul documento finale del gruppo di studio sull´Iraq, guidato dall´ex-segretario James Baker e dall´ex-parlamentare democratico Lee Hamilton. Come tanti esponenti di primo piano della destra ideologica, Pipes non si identifica nelle iniziative bi-partisan che si moltiplicano dopo la vittoria dei democratici nelle elezioni di mezzo-termine. «In Iraq abbiamo fatto degli errori negli ultimi tre anni e mezzo», ammette. «Ma con il rapporto Baker, scritto da dieci personaggi incompetenti, metà di un partito metà dell´altro, rischiamo di commettere sbagli ancora più gravi».
Fondatore e direttore del Middle East Forum, autore di diciotto libri tradotti in 19 lingue, Pipes è uno dei maggiori esperti americani del Medio Oriente. E´ anche un "neo-con" dalle posizioni anti-conformiste: nel passato ha parlato dell´opzione militare per l´impasse nucleare con l´Iran. Gli abbiamo chiesto di spiegare i rischi che la destra americana intravede nel rapporto sull´Iraq e quali alternative esistano al piano Baker.
Qual è a suo avviso il punto più debole del rapporto presentato ieri a George W. Bush e al Congresso?
«Il documento dà per scontato che i membri della coalizione, e quindi soprattutto gli Stati Uniti, siano responsabili per quel che succede in Iraq. Non è così: se gli iracheni vogliono ammazzarsi tra di loro, è una cosa terribile, ma non è affare nostro. Certo, avremmo dovuto chiarirlo sin dall´inizio, limitandoci a togliere di mezzo Saddam Hussein, a insediare un uomo forte e concentrarci sulla sicurezza del paese. Invece per tre anni e mezzo ci siamo fatti distrarre dai sogni di democrazia e libertà, con notevoli sacrifici in termini economici e di vite umane. Adesso è necessario rielaborare l´intera politica irachena in base ai nostri obiettivi strategici, tenendo presente che l´Iraq non è vitale per gli interessi americani, come invece lo erano la Germania, il Giappone e in parte anche l´Italia, dopo la seconda guerra mondiale».
Baker, Hamilton e gli altri saggi hanno suggerito alcuni orientamenti. Che giudizio dà delle singole proposte, a cominciare dal dialogo con la Siria e l´Iran?
«E´ una idea davvero singolare: perché mai i nostri nemici dovrebbero aiutarci a uscire dall´impasse? Semmai sono interessati a umiliarci, a indebolirci, a sconfiggerci. Nella migliore delle ipotesi, dunque, la proposta del dialogo con Tehran e Damasco è ingenua; nella peggiore delle ipotesi è folle. E sicuramente il presidente iraniano Ahmadinejad ne approfitterà per intensificare il confronto con il mondo occidentale».
Un´altra proposta è il rilancio dei negoziati diplomatici per il problema palestinese.
«Ed è un esempio del pessimo lavoro di riciclaggio: dopo la vittoria nella prima guerra del Golfo, invece di concentrarsi sul Kuwait e l´Arabia Saudita, la Casa Bianca si impelagò nelle trattative israelo-palestinesi. Fu un fallimento. Adesso il comitato Baker ripropone la stessa strada, ipotizzando persino la restituzione ai siriani delle alture del Golan. E´ tutto assurdo, ma non ne sono affatto sorpreso: non potevamo aspettarci molto di più da un gruppo di incompetenti».
Incompetenti?
«Non basta che dieci pensionati della politica e della Corte suprema abbiano buona volontà per produrre soluzioni creative. Purtroppo è una vecchia abitudine della politica americana: quando qualcosa non va, ci si affida ai vecchi saggi, non agli esperti del campo. L´unica speranza, ora, è che prevalga lo spirito critico. Dobbiamo smetterla di combattere contro gli insorti, di presidiare le città, di lottare contro il caos: a questo ci pensino gli iracheni. Al tempo stesso dobbiamo mantenere un forte contingente militare in Iraq a salvaguardia dei nostri interessi strategici nella regione».