Il triplice attentato suicida di Gerusalemme della scorsa settimana e il viaggio del segretario di Stato americano Madeleine Albright, che avrà inizio domani, riportano alla mente quanto asserito quindici anni or sono da George P. Schultz. Il neo segretario di Stato aveva assunto la carica sapendo poco e nutrendo scarso interesse nei confronti del Medio Oriente. Ma le crisi in atto lo costrinsero a focalizzare la sua attenzione sulla regione e dopo cinque mesi dall'inizio del suo mandato egli osservò con tono stanco che "se non si fa qualcosa a riguardo, il segretario di Stato passerà il 100% del suo tempo a occuparsi di Medio Oriente". A un anno di distanza, egli osservò sarcasticamente che "ogni segretario di Stato diventa molto rapidamente un esperto di Medio Oriente, che lo voglia o no".
Quando nel gennaio scorso la signora Albright assunse la carica di segretario di Stato, anche lei aveva deciso di non impantanarsi nell'acquitrino del Medio Oriente. Era ben consapevole del fatto che il suo predecessore, Warren Christopher, si era recato decine e decine di volte in visita solo a Damasco ed era stato criticato per essere diventato segretario di Stato per il Medio Oriente.
In realtà, c'è un'ottima spiegazione del perché i segretari di Stato vengono assorbiti dal Medio Oriente: molto riguarda direttamente il fatto che esso costituisce l'unica superpotenza mondiale. Innanzitutto, la regione che va dalla Libia all'Iran contiene due terzi di tutte le riserve di petrolio. Il Medio Oriente si contraddistingue altresì per una maggioranza di Stati fuorilegge (Iran, Iraq, Siria, Libia); per il maggior numero di liti di confine rispetto a ogni altra regione; e per l'Islam fondamentalista, la più dinamica ideologia anti-americana del mondo odierno. Esso è inoltre caratterizzato da innumerevoli conflitti in cui interi Stati rischiano di essere eliminati dai loro vicini (come accadde in Kuwait nel 1990-91).
Inoltre, il Medio Oriente genera i gruppi terroristici più pericolosi, li esporta all'estero (si pensi al World Trade Center) e sviluppa tecniche d'avanguardia (autobomba, terrorismo di Stato). È la sola regione in cui gli arsenali di armi convenzionali o meno continuano ad aumentare. Circa un quarto delle droghe illegali che entrano negli Stati Uniti arriva dal Medio Oriente. I governi della regione sono diventati dei veri maestri nell'arte della contraffazione al punto che la zecca statunitense ha creato un nuovo biglietto da 100 dollari espressamente per vanificare il loro operato.
Eppure questi motivi costituiscono il background del viaggio in Medio Oriente del Segretario di Stato. Il motivo primario di questo viaggio è legato a Israele e al suo conflitto con gli arabi. Fin dalla guerra arabo-israeliana del 1973, quando il prezzo del petrolio pressoché si quadruplicò, il governo americano partecipò dinamicamente al processo diplomatico arabo-israeliano, nella speranza di assicurare il futuro di Israele e di migliorare almeno alcuni degli altri problemi che affliggevano la regione.
Ma la diplomazia arabo-israeliana è ostacolata dal suo principale squilibrio: la formula "terra in cambio di pace" sostanzialmente esorta il vincitore (Israele) a rinunciare a un bene tangibile (i territori vinti nel 1967) in cambio di una mera astrazione (promesse di intenzioni pacifiche) da parte di chi ha subito la sconfitta (gli arabi).
A queste difficili negoziazioni, il governo americano apporta tre risorse senza pari. Innanzitutto, la sua salda amicizia nei confronti dello Stato ebraico rafforza la fiducia degli israeliani; Gerusalemme trova più semplice concedere terra, sapendo che gli americani forniscono ogni cosa: dagli armamenti ai veti opposti alle Nazioni Unite. In secondo luogo, gli Stati Uniti sono il paese più forte e più stabile a livello mondiale, pertanto possono ricompensare Israele per il fatto che esso corra dei rischi (o punirlo in caso contrario). In terzo luogo, i diplomatici americani hanno mostrato di avere grande creatività, inventando dei nuovo metodi (come i negoziati diplomatici condotti da un mediatore che si reca dalle parti in causa separatamente, riunire i capi di Stati in un rifugio di montagna, indurre i governi a fare pace) e coniando perfino dei nuovi vocaboli (processo di pace, negoziati per la definizione dello status finale.)
Questa combinazione di amicizia, forza e creatività permette al governo americano di stabilire un favoloso record di successi in seno all'attività diplomatica arabo-israeliana grazie all'operato di sei presidenti. Ciò ha aiutato Israele a siglare accordi con Egitto, Libano, Siria e gli stessi palestinesi. (Solo la Giordania riesce a trattare direttamente con Israele senza ricorrere all'intervento di Washington.) Ma c'è stata altresì una lunga lista di missioni infruttuose, di impegni non mantenuti e di accordi falliti.
Cosa conduce al successo e cosa conduce al fallimento? Uno dei prerequisiti per il successo è rappresentato dal fatto che le parti mediorientali desiderano raggiungere un mutuo accordo e risolvere un problema. In una simile circostanza le lusinghe americane giocano un ruolo importante. Il trattato di pace tra Egitto e Israele del 1979 e gli accordi di Oslo II sono entrambi dipesi da ciò.
Ma se una o entrambe le parti non desiderano veramente andare avanti o utilizzano i negoziati per qualche altro scopo, i diplomatici americani non possono essere loro d'aiuto. Peggio ancora, nell'inseguire un'illusione, esse sviliscono il prestigio degli Stati Uniti e, in definitiva, sminuiscono la capacità degli americani di trovare un accordo. Warren Christopher desiderava chiaramente siglare un accordo molto più di quanto lo volessero i suoi ospiti a Damasco ma a un certo punto il Presidente siriano gli tenne ostentatamente testa, facendo fare a Christopher e al suo governo la figura degli stupidi.
A fronte di ciò, la signora Albright dovrebbe riconoscere come sua prima priorità scoprire se le tre parti principali (la Siria, i palestinesi e Israele) siano realmente interessate o meno a far pace. Se lo sono, allora, facendo ricorso a tutti i mezzi, il Segretario di Stato dovrebbe emulare il suo predecessore e recarsi con una certa frequenza in Medio Oriente. Se le parti non pensano di trovare un accordo, la signora Albright dovrebbe lasciarsi guidare dall'istinto iniziale e non recarsi nella regione per lungo tempo.
Triste a dirsi, ma i segnali evidenziano che le tre parti non desiderano raggiungere la pace. Nel corso degli anni, il governo siriano ha mostrato interesse a far sì che i negoziati non portassero a nulla: esso desidera un processo di pace e non l'instaurazione della pace. Ciò fu molto più evidente a metà del 1995, quando Damasco disse a Christopher che avrebbe ripreso i colloqui con Israele, per poi all'ultimo minuto aggiungere una nuova condizione ingiustificata che in realtà uccise il processo negoziale. I palestinesi considerarono gli accordi non come dei contratti solenni da osservare alla lettera ma come strumenti atti a minare furtivamente la sicurezza di Israele, come dimostrato dal mantenimento di pochissime delle promesse da loro fatte riguardo l'interruzione degli atti di terrorismo, il porre fine alla retorica incendiaria e la modifica dello statuto palestinese. Alla luce di simili comportamenti da parte araba, il governo israeliano reagisce comprensibilmente in modo tutt'altro che entusiasta riguardo la firma di nuovi accordi.
Tutto questo suggerisce che è arrivato il momento per il capo della diplomazia statunitense di occuparsi di altre questioni diverse da quelle inerenti il conflitto arabo-israeliano. Ma ciò è probabilmente qualcosa che deve imparare a sue spese.
[Postscriptum: La signora Albright ha raccontato ai giornalisti nel suo viaggio di ritorno dal Medio Oriente: "Non posso occuparmi di ciò a tempo pieno".]