Prendiamo in considerazione due ritiri ben diversi eseguiti dall'esercito israeliano dai territori palestinesi. Il primo avvenne il 24 maggio 2000, quando gli israeliani lasciarono il Libano meridionale, dopo diciotto anni di occupazione. Il secondo risale al 14 agosto 2001, dopo tre ore di incursioni lanciate contro la città cisgiordana di Jenin.
È stupefacente osservare come nei due episodi entrambe le parti siano state soddisfatte dell'esito. Ogni volta, una delle parti si è illusa: gli israeliani lo fecero nel 2000 e gli arabi la scorsa settimana.
Nel 2000, il governo di Ehud Barak sosteneva inverosimilmente che il ritiro unilaterale dal Libano avrebbe rafforzato la posizione strategica di Israele. I suoi connazionali subirono un lavaggio del cervello affinché credessero che l'ignominiosa perdita che avevano subito fosse "una disfatta per la Siria e una vittoria per lo Stato ebraico". Gli israeliani rifiutarono di vedere ciò che era lampante, perché avevano un disperato bisogno di porre fine allo stato di guerra.
Di contro, l'organizzazione libanese Hezbollah vantò a buon diritto di avere ottenuto una notevole vittoria sul potente esercito israeliano e di aver conseguito il primo trionfo militare da parte degli arabi sullo Stato ebraico. Essa ha raggiunto l'obiettivo di cacciare Israele dal Libano, senza sollevare obiezioni o imponendo delle condizioni.
Nella scaramuccia della scorsa settimana, entrambe le parti hanno rivendicato ancora la vittoria, solo che stavolta esse hanno invertito i ruoli. L'esercito israeliano ha per l'appunto annunciato di aver portato a termine a Jenin tutti i suoi obiettivi. Di contro, i palestinesi si sono illusi nel pensare di aver conseguito un'eccellente vittoria, corredata da discutibile documentazione che attesta la partecipazione di giovani uomini imbottiti di esplosivi e che hanno affrontato eroicamente i carri-armati israeliani. Un dirigente dell'Autorità palestinese (AP) ha dichiarato con grandigia (ed in modo inesatto) che "il tentativo di Israele di invadere Jenin è fallito a causa dell'eroica resistenza popolare". Un leader di Hamas ha fatto eco alle sue parole, definendo l'episodio come "un'altra disfatta" per Israele. La Jihad islamica ha mostrato un po' più di circospezione, asserendo che lo scontro non è nient'altro che "un onore per la resistenza palestinese". Perfino il capo della polizia di Jenin si è unito al coro esultante: "La nostra gente ha combattuto i carri-armati israeliani con tutte le sue forze e facendo appello all'eroica resistenza li ha costretti al ritiro". Ne sono seguiti dei festeggiamenti di piazza con canti, spari, e pietanze tipiche delle grandi occasioni – tutto per celebrare questo fantomatico successo.
Permettetemi tre osservazioni: innanzitutto va detto che, proprio come gli israeliani sono tornati prepotentemente alla realtà dopo sette anni di distacco, così i loro avversari vivono sulle nuvole.
In secondo luogo, gli errori commessi da ogni parte sono del tutto peculiari. Gli israeliani chiedono insistentemente di giungere ad una risoluzione, pertanto pensano che col mostrare una buona volontà indurrebbero gli arabi alla benevolenza. I palestinesi sognano la vittoria, pertanto sono convinti che l'abnegazione sia la via per trionfare su Israele. L'errore israeliano è stato oltremodo madornale, quello palestinese è perverso.
In terzo luogo, entrambi gli errori hanno delle conseguenze profondamente nocive. L'impossibilità di Israele a mantenere i normali standard di auto-conservazione dal 1993 al 2000 è stato un segno di debolezza che ha rinvigorito le moribonde ambizioni arabe dirette a distruggere "l'entità sionista", con la crisi in corso come diretta conseguenza.
L'emotività palestinese adesso minaccia ulteriormente di esacerbare il problema. Animati da ciò che viene definita come abnegazione, i palestinesi attutiscono le fredde valutazioni dell'equilibrio delle forze con un crescente culto della morte e del martirio particolarmente preoccupante.
La massima figura religiosa dell'AP ha pubblicamente dichiarato che "Il musulmano abbraccia la morte (…) il musulmano è felice di morire", screditando la società israeliana come "una società egoista che ama la vita". Ogni società che ama la morte va incontro a certe difficoltà – come il suo avversario.
Per essere più precisi, sono tre gli eventi che potrebbero trasformare la crescente predilezione da parte degli arabi per un confronto apocalittico in una guerra vera e propria. Il punto critico potrebbe essere rappresentato dallo spostamento delle truppe irachene verso il Giordano, dall'esercito egiziano nella Penisola del Sinai o dai missili Hezbollah lanciati nella parte settentrionale di Israele. Nessuno di questi scenari è inverosimile, sono tutti plausibili.
Come ha reagito il mondo esterno alle allucinazioni seriali degli israeliani e poi degli arabi? Disinteressandosene totalmente.
Non un solo governo e neppure le maggiori emittenti radio-televisive hanno messo in guardia Israele dai sette anni vissuti fuori dalla realtà. Piuttosto, all'unisono, essi hanno incitato il paese e hanno incoraggiato l'assurda speranza che le concessioni unilaterali al presidente dell'AP Yasser Arafat ed al presidente siriano Hafez Assad avrebbero contribuito al raggiungimento della "pace".
E così allo stesso modo, i ministri degli Esteri e gli editorialisti oggi non dicono agli arabi ciò che loro hanno un disperato bisogno di sentirsi dire, come ad esempio quanto segue: "Israele dispone di un'economia moderna e di un arsenale all'avanguardia con cui voi non siete probabilmente in grado di competere. I vostri attacchi suicidi sortiscono l'effetto deleterio di risvegliare i sentimenti sionisti. Se muoverete guerra contro Israele, la perderete quasi certamente, e a caro prezzo. Fate la cortesia di abbandonare il perfido sogno di distruggere il vostro vicino e concentratevi piuttosto sull'obiettivo costruttivo di soddisfare il vostro potenziale economico e politico".
Se tali parole non verranno ben presto ascoltate, prenderà sempre più corpo l'ipotesi dello scoppio di una guerra a livello regionale che nessuno dirà di aver voluto, ma che verrà detto una volta che essa sarà finita.