Mattar, direttore esecutivo dell'Istituto per gli Studi sulla Palestina, ripercorre la vita di Amin al-Husseini (1895-1974), il principale politico palestinese tra il 1921 e il 1949, e lo fa nel modo in cui un comunista di stampo gorbacioviano guarda a Stalin. In ogni caso, il raffinato dei giorni nostri trova molto da criticare sui rozzi sforzi del leader precedente, e allo stesso tempo, una comunanza di intenti mitiga una dura valutazione, rendendo lo sforzo fondamentalmente congeniale. L'esempio più eclatante di questa trascendenza è il frontespizio, un delicato dipinto a olio di al-Husseini eseguito dal fratello dell'autore.
Nonostante questa dubbia premessa ideologica, Mattar ha svolto ricerche solide e le ha condensate in una narrazione piacevole da leggere e divulgativa. L'autore vede la carriera di al-Husseini dividersi in due fasi distinte: la fase Palestina (1917-1936), caratterizzata dalla cautela e dalla collaborazione con le autorità britanniche; e la fase dell'esilio (dopo il 1936), segnata da "amarezza, rigidità e alleanze politiche di dubbio valore". Mattar sostiene poi che al-Husseini durante la prima fase fu un po' troppo un politico accomodante, così come fu un po' troppo un ideologo estremista nella seconda, e che entrambi questi errori "hanno contribuito alla sconfitta definitiva dei palestinesi". La biografia critica di Mattar suggerisce che l'establishment palestinese è finalmente disposto a ritenere pubblicamente il suo fondatore responsabile del fatto di aver preso la strada sbagliata. Come con il corrispondente dibattito sovietico sulla storia, ciò potrebbe presagire in futuro una politica più onesta e realistica.