L'antisemitismo è un argomento particolarmente delicato e quando Bernard Lewis lo affronta è molto attento a definirne i termini.
Per questo professore di Princeton di Studi del Vicino Oriente, antisemitismo non significa disaccordo con la politica dello Stato di Israele (dopotutto, anche numerosi israeliani sono in contrasto con le politiche del loro governo). Né Lewis pensa a quello che definisce pregiudizio "normale", cioè i sospetti e i risentimenti abituali che si sviluppano tra i membri di gruppi etnici dissimili.
L'antisemitismo, nel modo in cui Lewis utilizza il termine è qualcosa di distinto. Egli sostiene che il pregiudizio profondamente radicato e persistente nei confronti degli ebrei è unico, paragonabile soltanto al maltrattamento subito dai neri. Ma anche qui esiste una differenza significativa. Mentre "colui che detesta i neri può essere appassionato nel suo odio, sadico nella sua crudeltà, come colui che detesta gli ebrei (...) il suo scopo è dominare e umiliare, usare e sfruttare, non certo distruggere".
Lewis offre una semplice tesi sull'evoluzione dell'antisemitismo. Sostiene che si tratta di un fenomeno specificamente cristiano, frutto di due circostanze speciali: il complesso rapporto teologico tra Cristianesimo ed Ebraismo e i secoli di storia ebraica in Europa, quando gli ebrei si distinsero come l'unico popolo non cristiano. L'antisemitismo europeo divenne per la prima volta una forza importante in epoca medievale e culminò secoli dopo nei campi di sterminio nazisti. Al contrario, Lewis mostra che non c'era antisemitismo tra i musulmani. Gli atteggiamenti tradizionali dei musulmani nei confronti degli ebrei erano, piuttosto, quelli di un pregiudizio "normale". Questo non ha nulla a che fare con il fatto che gli arabi sono talvolta chiamati semiti, perché, come mostra la storia recente, sono capaci di sentimenti antiebraici come chiunque altro. Invece, deriva dal fatto che l'Islam non condivide nessuna delle preoccupazioni nutrite dal Cristianesimo nei confronti degli ebrei. L'autore sostiene che il ruolo degli ebrei nel mondo islamico classico era degno di nota principalmente per la sua irrilevanza.
L'antisemitismo è entrato nella cultura musulmana solo con l'aumento dell'influenza europea in Medio Oriente, un processo iniziato 150 anni fa. Insieme alle armi, alle medicine e all'opera, i musulmani importarono l'antisemitismo e questo proliferò. Forse la parte più sorprendente di Semites and Anti-Semites [Semiti e antisemiti] (Norton, 283 pagine, $ 18,95) è il capitolo che dimostra la diffusa ammirazione in Medio Oriente per Hitler e per i nazisti. Il leader palestinese, Hajj Amin al-Husseini, incontrò Hitler a Berlino nel 1941 e in seguito si unì allo sforzo nazista; l'Egitto sotto Gamal Abdul Nasser si trasformò in un importante rifugio per i nazisti; e Anwar Sadat lavorò a stretto contatto con gli agenti tedeschi durante la Seconda guerra mondiale. Questa ammirazione rimane viva: solo nel 1982, il giornale del Partito Liberale egiziano si riferiva a Hitler come a "quel grande uomo".
Ma furono le frequenti sconfitte militari degli eserciti arabi per mano di Israele a creare il reale bisogno dell'antisemitismo. Cercando un modo per spiegare l'inaspettato successo degli ebrei, molti arabi si sono rivolti al grande corpus letterario antisemita sviluppato in Europa proprio per questi scopi. I risultati sono stati spettacolari: nei media arabi, israeliani ed ebrei ovunque sono diventati figure sataniche. Anche questi non sono scritti marginali e come osserva Lewis, "l'antisemitismo classico è una parte essenziale della vita intellettuale araba in questo momento, quasi quanto accadde nella Germania nazista". Nel 1970, i sentimenti [antisemiti] raggiunsero un livello tale che uno dei trattati più straordinariamente antisemiti del mondo, un documento falsificato dalla polizia segreta degli zar nel 1890 e intitolato I Protocolli dei Savi di Sion, è apparso nella lista dei best-seller in Libano.
I temi classici dell'antisemitismo europeo sono apparsi per la prima volta in Iraq e in Egitto, poi sono diventati prominenti in Arabia Saudita, in Libia e in Iran. Come gruppo, questi Paesi "sono diventati il principale centro dell'antisemitismo internazionale, da cui viene distribuita in tutto il mondo la letteratura antisemita e altra propaganda". Così come il flagello dell'antisemitismo si è estinto nella sua patria europea, paradossalmente, è rinato in Medio Oriente.
Ma c'è una differenza: per i musulmani, l'antisemitismo è un innesto, qualcosa di importato per ragioni politiche specifiche, e non un'espressione autoctona di sentimenti profondamente radicati. Poiché i musulmani in genere indossano questo pregiudizio con più leggerezza rispetto ai loro omologhi europei, c'è la possibilità che esso venga abbandonato quando il suo scopo politico sarà stato raggiunto. Sulla base di quest'idea, Lewis ritiene che, nonostante le passioni che animano l'attuale conflitto, l'antisemitismo potrebbe essere un fenomeno transitorio in Medio Oriente.
Trattando il tema particolarmente delicato dell'antisemitismo con grande delicatezza, Lewis riesce a fare due cose. Innanzitutto, mette in luce un aspetto oscuro ma molto importante del conflitto arabo-israeliano. In secondo luogo, solleva scomode questioni di pregiudizio e razzismo che la maggior parte degli analisti del Medio Oriente preferisce evitare. Il coraggio necessario per intraprendere questo studio è notevole quanto la maestria con cui viene effettuato.