Come sempre, le relazioni israelo-palestinesi attirano la massima attenzione. I notiziari sono dominati da interrogativi del tipo: Chi rappresenta i palestinesi? Qual è il loro rapporto con l'Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP)? Come reagiscono gli israeliani?
Al contrario, i Paesi arabi quasi scompaiono dalla scena. Alcuni analisti arrivano al punto di vedere la questione israelo-palestinese separata dal conflitto di Stato. Amos Perlmutter, ad esempio, intravede una risoluzione della questione palestinese solo a condizione che venga "scollegata dall'intero conflitto arabo-israeliano". [1]
Ma questo è un approccio sbagliato. I palestinesi sono da quattro decenni le pedine del Cairo, di Baghdad, di Amman, di Damasco e non il contrario. I Paesi arabi sono sotto molti aspetti più determinanti per il conflitto rispetto ai palestinesi: gli eserciti arabi fecero guerra al nascente Stato di Israele nel 1948 e, perdendo, decisero di mantenere viva la questione privando i profughi palestinesi dell'opportunità di reinsediarsi. Per controllare il movimento palestinese, i presidenti arabi, i sovrani e gli emiri fondarono l'OLP nel 1964. Gli Stati arabi, e non i palestinesi, combatterono le guerre del 1967 e del 1973. Questi Stati trasformarono un conflitto comunitario autoctono in una questione di importanza internazionale, riguardante la religione, il petrolio, e le relazioni con le Nazioni Unite e le grandi potenze.
Tra gli Stati in conflitto con Israele, l'Egitto è stato a lungo il più importante, a causa della sua potenza militare, delle sue dimensioni, della sua leadership tattica e della sua centralità geografica. Sotto Gamal Abdel Nasser e Anwar as-Sadat, l'Egitto ha guidato sia in guerra sia in pace. Questo ruolo primario ebbe improvvisamente fine del 1979 con la firma di un trattato di pace con Israele, che sortì l'effetto di rimuovere l'Egitto dalla mischia; da allora, il Cairo è rimasto essenzialmente ai margini del conflitto arabo-israeliano.
Gli altri due Paesi vicini di Israele non possono assumere un ruolo guida. I libanesi hanno imparato questa lezione quando firmarono un accordo con Israele nel maggio 1983, promosso dagli Stati Uniti, per poi abrogarlo meno di un anno dopo, dietro pressione della Siria. Non c'è bisogno di spiegare tale lezione ai giordani, perché loro sanno che riconoscere apertamente Israele provocherebbe la rabbia siriana e forse metterebbe a repentaglio la monarchia hashemita. Quanto all'OLP, la sua forza sta nei media, e non sul campo di battaglia, e l'organizzazione ha imparato a sfidare Damasco a suo rischio e pericolo.
Pertanto, il centro dell'azione si è spostato a Damasco. Militarmente, il conflitto arabo-israeliano si riduce a un confronto siro-israeliano. Il presidente Hafiz al-Asad prende le decisioni di guerra e di pace. Finché rifiuterà di accettare l'esistenza di Israele, il conflitto continuerà. Se fosse disposto a farlo, le dimensioni internazionali del conflitto arabo-israeliano si ridurrebbero rapidamente; la questione palestinese diventerebbe un problema locale, terribile per coloro che sono coinvolti, ma di minore importanza per il mondo esterno.
Asad ha una comprovata esperienza nell'affondare le iniziative diplomatiche contrarie ai suoi interessi, e può farlo di nuovo. Se gli altri leader arabi negoziassero con Israele contro il volere di Asad, dovrebbero temerlo, piuttosto che il contrario. Anzi, come indica il ruolo di Damasco nell'attuale processo diplomatico, una risposta positiva da parte della Siria consente agli arabi di proseguire.
Gli israeliani che considerano i palestinesi come i loro interlocutori chiave ravvisano nel negativismo siriano un motivo per non porre un veto a Damasco. L'ex primo ministro Yitzhaq Rabin, ad esempio, sostiene che gli israeliani "hanno raggiunto accordi con gli arabi solo quando noi abbiamo seguito due principi fondamentali: iniziare con l'Egitto e lasciare la Siria per ultima". Includere i siriani, egli arguisce, ha il vantaggio di costringere i palestinesi e i giordani a stare in guardia da Damasco. [2]
Ma Rabin ignora il fatto che anche se Asad fosse escluso, attori deboli come i palestinesi e i giordani dovrebbero, comunque, preoccuparsi delle sue reazioni. In modo minaccioso, ma accurato, Damasco afferma che "non ci può essere pace senza la Siria". Né Rabin dovrebbe sottovalutare che Asad è contrario alla creazione di uno Stato palestinese che non sia sotto il suo controllo. Damasco non ha riconosciuto la dichiarazione di indipendenza palestinese dell'OLP del novembre 1988, anzi non l'ha affatto menzionata. In breve, la leadership siriana, e non i palestinesi, ritiene di avere un ruolo chiave in qualsiasi negoziato con Israele.
E Asad non ha dimostrato alcuna volontà di porre fine al conflitto con Israele. Nella migliore delle ipotesi, egli concederà allo Stato ebraico un accordo di non belligeranza in cambio della restituzione integrale delle alture del Golan, strappate alla Siria da Israele durante la guerra del 1967. Asad non ha mai espresso la volontà di firmare un trattato di pace con Gerusalemme. E questo è un punto cruciale della disputa arabo-israeliana.
Gli interessi siriani e israeliani coincidono in vari aspetti minori. In Libano, sono state messe a punto delle "linee rosse" che raramente vengono violate. Entrambi i governi disprezzano Yasser Arafat e cercano un'alternativa alla leadership palestinese. Una serie di questioni secondarie potrebbero essere risolte attraverso i negoziati. Gli israeliani, ad esempio, sono impazienti di sfruttare le acque del fiume Litani. Gli accordi sul controllo degli armamenti – misure di rafforzamento della fiducia, zone smilitarizzate o la riduzione di truppe e armi – offrono un'altra arena di potenziale cooperazione.
Le alture del Golan presentano più di un problema, anche se qui esiste un certo accordo tacito. Gli israeliani sono profondamente riluttanti a separarsi da questo territorio, mentre i siriani lo richiedono come condizione assoluta del progresso diplomatico. Diversi fattori spiegano la motivazione di Israele. Per cominciare, i cannoni siriani sulle alture del Golan hanno colpito le fattorie nel nord di Israele dal 1948 al 1967. Denotano altresì il ruolo fondamentale che l'area ebbe nel 1973. Del resto, Israele paga un prezzo irrisorio per mantenere le alture del Golan. Il confine è tranquillo e i cittadini siriani nella regione sono pochi (circa 16 mila) e poco molesti. Sono quasi tutti drusi – membri di una setta derivante dall'Islam, ma non riconosciuta dai musulmani mainstream – e pertanto s'inseriscono bene sia in Israele sia in Siria.
Questi fattori inducono gli israeliani a considerare il territorio del Golan come proprio. I sondaggi mostrano che oltre il 90 per cento dell'elettorato israeliano è assolutamente favorevole a mantenere il Golan, e la leadership israeliana, tanto quella del Likud quanto quella del Partito Laburista, è ferma su tale questione. Da parte siriana, sebbene Damasco chieda occasionalmente la restituzione delle alture del Golan, non ne fa mai il problema centrale con Israele, e con buone ragioni. Il controllo israeliano sulle alture del Golan serve ad Asad per distogliere il malcontento contro di lui e indirizzarlo verso un nemico esterno. La debole base interna di Asad implica che lui dipende dall'antisionismo per raggiungere la maggioranza della popolazione sunnita, e l'occupazione israeliana del Golan lo mantiene in prima linea nel conflitto con Israele.
Cosa possono fare le potenze esterne per incoraggiare la flessibilità a Damasco? Possono concentrarsi sul punto debole di Asad, l'economia siriana. In stallo da anni nella morsa della senescenza socialista, dell'eccessiva centralizzazione, delle ingenti spese militari, della corruzione clientelare e di un'altissima crescita della popolazione del 3,8 per cento all'anno, la Siria è da quasi un decennio alle prese con una grave crisi economica.
Come ha dimostrato Patrick Clawson, per pagare gli altissimi costi militari siriani, Asad ha fatto a lungo affidamento su entrate provenienti dall'esterno del Paese. In altre parole, il reddito esterno ha finanziato la politica estera aggressiva del regime, inclusa quella rivolta contro Israele. L'Occidente esercita su Damasco un'influenza politica molto maggiore rispetto a prima, ora che il blocco sovietico non eroga più fondi come una volta e gli Stati del Medio Oriente ricchi di petrolio cooperano per lo più con Washington.
Di conseguenza, se l'Occidente cerca di indurre i siriani a raggiungere un accordo con Israele, l'approccio più promettente è attraverso il portafoglio di Damasco. Come minimo, non dovremmo finanziare l'economia siriana; più ambiziosamente, gli investimenti e il commercio con la Siria possono essere ridimensionati, in attesa della disponibilità di Damasco di pervenire a un accordo di pace con Israele.
La strada è lunga e Asad è un formidabile avversario; influenzare la politica siriana richiede mano ferma e la volontà di far fronte agli imprevisti Ma le ricompense sono grandi, perché è qui che risiede l'unica soluzione del conflitto arabo-israeliano.
[1] Amos Perlmutter, "Israel's Dilemma", Foreign Affairs , Winter 1989/90, p. 132.
[2] The Jerusalem Report, 4 July 1991.