LA PRIMAVERA SCORSA, l'Università di Harvard ha scelto Zayed Yasin, uno studente dell'ultimo anno, per tenere un discorso alla cerimonia annuale di conferimento delle lauree. Quando fu annunciato il titolo del discorso – "Il mio jihad americano" – sorsero delle domande spontanee. Perché, ci si chiese, Harvard voleva promuovere il concetto di jihad – ossia di "guerra santa" – pochi mesi dopo che migliaia di americani avevano perso la vita a causa di un jihad condotto da diciannove attentatori suicidi che hanno agito in nome dell'Islam? Yasin, che in passato era stato presidente della Harvard Islamic Society, ebbe una risposta pronta. Collegare il jihad alla guerra, egli disse, era stato frainteso. Al contrario, "nella tradizione musulmana, il jihad rappresenta una lotta per fare ciò che è giusto". Yasin aggiunse che era sua ferma intenzione "reclamare la parola per darle il suo vero significato, che è la lotta interna".
Nello stesso discorso, Yasin aggiunse dei dettagli su questo punto:
Il jihad, nella sua forma più pura e autentica, la forma alla quale aspirano tutti i musulmani, è la determinazione ad agire rettamente, a rendere giustizia andando anche contro i propri interessi. È una lotta individuale per una condotta personale che sia etica. Soprattutto oggi, è una lotta che esiste a più livelli: auto-purificazione e consapevolezza, servizio pubblico e giustizia sociale. Su scala mondiale, è una lotta che coinvolge persone di ogni età, colore della pelle e credo per il controllo delle Grandi Decisioni: non solo chi controlla quale lembo di terra, ma in maniera più importante chi prende le medicine, chi può mangiare.
Tutto questo è esatto? A dire il vero, Yasin non era uno studioso di Islam né lo era il preside di Harvard, Michael Shinagel, che appoggiò con entusiasmo "il discorso ponderato" e dichiarò che il jihad è una lotta personale "per promuovere la giustizia e la comprensione di noi stessi e della nostra società". Entrambi, però, rispecchiavano l'opinione comune degli specialisti islamici della loro università. Così David Little, un docente di Harvard di religione e di affari internazionali, aveva dichiarato dopo l'11 settembre che il jihad "non è una licenza per uccidere", mentre per David Mitten, un docente di arte classica e di archeologia e un consigliere della Harvard Islamic Society, il vero jihad è "la lotta costante dei musulmani per sconfiggere i loro istinti primari, seguire il cammino verso Dio e per fare del bene nella società". Sulla stessa falsariga, il professore di storia Roy Mottahedeh ha asserito che "una maggioranza di intellettuali musulmani attinge a un'erudizione impeccabile, insiste sul fatto che il jihad deve essere inteso come una lotta senza armi".
E nemmeno i docenti di Harvard sono eccezionali a riguardo. La verità è che chi cerca lumi sul concetto islamico molto importante del jihad otterrebbe chiarimenti e pareri quasi identici dai titolari delle cattedre universitarie da un capo all'altro degli Stati Uniti. Passando in rassegna le dichiarazioni rilasciate ai media da questi specialisti universitari, ho scoperto che questi ultimi tendono a presentare il fenomeno del jihad in una maniera molto simile – solo che l'immagine risulta essere falsa.
Alcuni argomenti concatenati emergono da oltre due dozzine di esperti su cui ho fatto una ricerca.[i] Solo quattro di loro ammettono che il jihad ha una certa componente militare, e anche loro, con un'unica eccezione, insistono sul fatto che questa componente è di natura puramente difensiva. Valerie Hoffman dell'University of Illinois è la sola a dire che "nessun musulmano che lei ha conosciuto avrebbe appoggiato quegli atti terroristici [gli attacchi dell'11 settembre], perché ciò va contro le regole d'ingaggio islamiche". Nessun altro studioso arriverebbe a quest'allusione implicita che il jihad contiene una componente offensiva.
Così, John Esposito della Georgetown University, forse lo studioso dell'Islam più in vista, sostiene che "nella lotta per essere un buon musulmano, ci potrebbero essere dei momenti in cui si verrà chiamati a difendere la propria fede e la propria comunità. Allora [il jihad] può assumere il significato di lotta armata". Un altro specialista che corrobora questa tesi è Abdullahi Ahmed An-Na'im di Emory, che spiega che "la guerra è proibita dalla shari'a [la legge islamica], eccetto che in due casi: l'autodifesa e la diffusione della fede islamica". Secondo Blake Burlesone della Baylor University, questo significa che, nell'Islam, un atto di aggressione come quello dell'11 settembre "non deve essere considerato una guerra santa".
Per altri sei studiosi oggetto della mia ricerca il jihad può ben includere degli scontri armati a scopo difensivo, ma questa accezione è secondaria rispetto ai concetti elevati di auto-perfezionamento morale. Charles Kimball, a capo del dipartimento di religione della Wake Forest University, lo spiega in poche parole: jihad "significa combattere o battersi in nome di Dio. Il grande jihad per la maggior parte è una lotta contro se stessi. Il jihad minore è il jihad esteriore, difensivo". Si pronunciano allo stesso modo autorità come Mohammad Siddiqi della Western Illinois University, John Iskander della Georgia State University, Mark Woodard della Arizona State University, Taha Jabir Al-Alwani della scuola dell'Islam e delle scienze sociali a Leesburg, in Virginia, e Barbara Stowasser della Georgetown Universtity.
Ma un contingente ancor più ampio – nove di quelli oggetto della mia ricerca – nega che il jihad abbia una qualsiasi valenza militare. Per Joe Elder, docente di sociologia all'University of Wisconsin, l'idea che il jihad significhi guerra santa è "un grave travisamento". Al contrario, egli dice, il jihad è una "lotta religiosa, che riflette più fedelmente le lotte interne e personali della religione". Per Dell DeChant, un docente di religioni del mondo alla University of South Florida, il termine come è "in genere inteso" significa "una lotta per essere fedele alla volontà di Dio e non una guerra santa".
Punti di vista simili sono stati espressi da altri studiosi come John Kelsay della John Carroll University, Zahid Bukhari della Georgetown e James Johnson della Rutgers. Roxanne Euben del Wellesley College, autrice di The Road to Kandahar: A Geneology of Jihad in Modern Islamist Political Thought, asserisce che "per molti musulmani, jihad significa resistere alla tentazione e diventare una persona migliore". John Parcels, un docente di filosofia e di studi religiosi alla Georgia Southern University, definisce il jihad una lotta "contro i desideri e la propria volontà". Per Ned Rinalducci, un docente di sociologia alla Armstrong Atlantic State University, gli obiettivi del jihad sono: "A livello interno, essere un buon musulmano. A livello esterno, creare una società giusta". E Farid Eseck, professore di studi islamici all'Auburn Seminary della città di New York, descrive memorabilmente il jihad come "una resistenza all'apartheid o un lavoro per i diritti delle donne".
E infine, ci sono quegli accademici che focalizzano l'attenzione sul concetto di jihad inteso come "auto-purificazione" e poi procedono a universalizzarlo, applicandolo ai non musulmani così come ai musulmani. Così, per Bruce Lawrence, un eminente docente di studi islamici alla Duke University, non solo lo stesso jihad è un termine elastico ("essere uno studente migliore, un collega migliore, un socio in affari migliore. Soprattutto, per controllare la propria rabbia"), ma che i non musulmani dovrebbero altresì "coltivare (…) una virtù civile conosciuta sotto il nome di jihad":
Jihad? Sì, jihad…un jihad che sarebbe una vera e propria lotta contro la nostra miopia e negligenza e contro gli altri che ci condannano o ci detestano per ciò che facciamo, non per ciò che siamo…Per noi americani, il grande jihad significherebbe che noi dovremmo rivedere le nostre politiche interne ed estere in un mondo che attualmente mostra piccoli segni di promuovere la giustizia per tutti.
E qui torniamo ai sentimenti espressi dall'oratore di Harvard di cui ho parlato all'inizio del pezzo che voleva convincere gli astanti che il jihad è qualcosa che tutti gli americani dovrebbero ammirare.
IL PROBLEMA, con tutta questa saggezza degli studiosi, è semplice da enunciare. Esso sottintende che Osama bin Laden non sapeva quello che diceva quando qualche anno fa dichiarò il jihad contro gli Stati Uniti per poi assassinare ripetutamente gli americani in Somalia, nelle ambasciate statunitensi dell'Africa orientale, nel porto di Aden, e l'11 settembre 2001. Ciò implica che le organizzazioni che recano nei loro nomi la parola "jihad", come ad esempio la Jihad islamica palestinese e il "Fronte islamico internazionale per il jihad contro gli ebrei e i crociati" dello stesso bin Laden, hanno una denominazione erronea. E che dire di tutti i musulmani che conducono dei jihad violenti e aggressivi sotto questo stesso nome e nello stesso momento in Algeria, Egitto, Cecenia, Kashmir, Mindanao, Ambon e in altri luoghi del mondo? Non hanno sentito dire che il jihad serve a controllare la propria rabbia?
Naturalmente sono bin Laden, la Jihad islamica e i jihadisti di tutto il mondo quelli che definiscono il termine, e non un gruppo di apologeti accademici. Ma la cosa più importante è che il modo in cui i jihadisti intendono il termine è conforme all'uso che ne hanno fatto in quattordici secoli di storia islamica.
Nei tempi pre-moderni, il jihad significava principalmente una cosa tra i musulmani sunniti, che ora sono la maggioranza islamica.** Esso voleva dire sforzo legale, obbligatorio e comunitario di espandere i territori governati dai musulmani (noti in arabo come dar al-Islam) a scapito dei territori governati dai non musulmani (dar al-harb). In questa concezione dominante, lo scopo del jihad è politico, non religioso. Si mira non tanto a diffondere la fede islamica quanto a estendere il potere musulmano sovrano (anche se la diffusione del credo religioso è spesso seguita dall'estensione del potere islamico sovrano). L'obiettivo è certamente offensivo e il suo scopo finale è ottenere il dominio musulmano sul mondo intero.
Conquistando territori e diminuendo le dimensioni delle zone governate dai non musulmani, il jihad realizza due obiettivi: manifesta la pretesa dell'Islam di rimpiazzare le altre fedi religiose e reca il vantaggio di un ordine mondiale giusto. Nelle parole di Majid Khadduri della John Hopkins University, scritte nel 1955 (prima che la correttezza politica conquistasse le università), il jihad è "uno strumento per l'universalizzazione della religione [islamica] e per la creazione di uno Stato imperiale mondiale".
Quanto alle condizioni in base alle quali il jihad potrebbe intraprendersi – quando, da chi, contro chi, con quale dichiarazione di guerra, con quale conclusione, con quale ripartizione del bottino, etc. – queste sono delle questioni che gli studiosi di religione hanno studiato nei minimi dettagli nel corso dei secoli. Ma sul significato fondamentale del jihad – guerra contro i non credenti per estendere i territori musulmani – c'era un consenso unanime. Ad esempio, la raccolta più importante di hadith (racconti che narrano detti e fatti attribuiti a Maometto), chiamati Sahih al-Bukhari, contiene 199 riferimenti al jihad e ognuno di essi si riferisce a esso nel senso di guerra armata contro i non musulmani. Citando il Dizionario dell'Islam del 1885, il jihad è "un dovere religioso imprescindibile, fondato sul Corano e sulle tradizioni [hadith] come un'istituzione divina e imposta soprattutto allo scopo di far progredire l'Islam e respingere il male dai musulmani".
NEL CORSO DEI SECOLI, il jihad non è stato un obbligo astratto, ma un aspetto chiave della vita musulmana. Secondo un calcolo, lo stesso Maometto prese parte a 78 battaglie, di cui una sola (la battaglia del Fossato) fu difensiva. Un secolo dopo la morte del profeta nel 632, gli eserciti musulmani erano arrivati in India a est e in Spagna a occidente. Anche se un'espansione così spettacolare non si sarebbe mai ripetuta, nei secoli successivi ci furono delle importanti vittorie come le diciassette campagne in India di Mahmud Ghazna (che regnò dal 998 al 1030), la battaglia di Manzikert che aprì l'Anatolia (1071), la conquista di Costantinopoli (1453) e i trionfi di Uthman dan Fodio nell'Africa occidentale (1804-1817). In breve, il jihad fece parte del nucleo non solo della dottrina musulmana pre-moderna ma anche della vita musulmana pre-moderna.
Detto questo, il jihad ebbe anche due accezioni diverse nel corso del tempo, una più radicale rispetto al significato ordinario e l'altra molto pacifica. La prima, principalmente associata all'intellettuale Ibn Taymiya (1268-1328) ritiene che i musulmani di nascita che non riescono a soddisfare gli obblighi della loro fede debbano essere considerati infedeli e quindi legittimi obiettivi del jihad. Questo tendeva a dimostrarsi utile quando (come accadeva di frequente) un governante musulmano muoveva guerra contro un altro; solo presentando il nemico come non veramente musulmano, la guerra poteva essere esaltata come jihad.
La seconda variante. in genere associata ai Sufi, ossia i mistici musulmani, era la dottrina tradotta solitamente come il "grande jihad" ma forse più propriamente denominata come "jihad superiore". Questa variante sufi evoca modi allegorici d'interpretazione per ribaltare il significato letterale del jihad inteso come conflitto armato, reclamando piuttosto un ritiro dal mondo per combattere contro gli istinti più bassi alla ricerca della coscienza e della profondità spirituale. Ma come osserva Rudolph Peters nel suo autorevole Jihad Classical and Modern Islam (1995), questa interpretazione è stata "appena trattata" negli scritti giuridici sul jihad.
NELLA grande maggioranza dei casi pre-moderni, allora, il jihad significava solo una cosa: azione armata contro i non musulmani. Nei tempi moderni, le cose sono diventate naturalmente un po' più complicate, poiché l'Islam ha subito dei cambiamenti contraddittori frutto del suo contatto con le influenze occidentali. Dovendo i musulmani fronteggiare l'Occidente, essi hanno preferito adottare uno di questi tre approcci generali: islamista, riformista o laico. Al fine di questo studio, possiamo non tenere conto dei secolaristi (come Kemal Atatürk), poiché essi rifiutano categoricamente il jihad e concentriamoci piuttosto sugli islamisti e sui riformisti. Entrambi hanno fissato la loro attenzione sulle differenti accezioni del jihad per sviluppare le proprie interpretazioni.
Gli islamisti, oltre ad attenersi all'idea di base del jihad inteso come una guerra armata contro gli infedeli, hanno altresì accolto l'appello di Ibn Taymiya di prendere di mira i musulmani empi. Quest'approccio ha acquisito maggiore importanza nel XX secolo quando intellettuali islamisti come Hasan al-Banna (1906-1949), Sayyid Qutb (1906-1966), Abu al-A'la Mawdudi (1903-1979) e l'Ayatollah Ruhollah Khomeini (1903-1989) hanno sostenuto il jihad contro i presunti governanti musulmani che non osservavano né applicavano le leggi islamiche. I rivoluzionari che rovesciarono lo Scià dell'Iran nel 1979 e gli assassini che trucidarono il presidente egiziano Anwar Sadat, due anni dopo, approvarono apertamente questa dottrina. E così anche Osama bin Laden.
I riformisti, al contrario, hanno reinterpretato l'Islam per renderlo compatibile con i costumi occidentali. Sono loro – principalmente con gli scritti di Sir Sayyid Ahmad Khan, un leader riformista indiano del XIX secolo – che si sono dati da fare per trasformare l'idea di jihad in un'impresa puramente difensiva compatibile con le premesse del diritto internazionale. Quest'approccio, definito nel 1965 dall'autorevole Enciclopedia dell'Islam "interamente apologetico", deve molto più all'Occidente piuttosto che al pensiero islamico. Ai nostri giorni, esso è stato ulteriormente snaturato in ciò che Martin Kramer ha descritto come "una specie di quaccherismo orientale", e questo, unitamente alla ricomparsa della nozione sufi di "grande jihad" è ciò che ha incoraggiato qualcuno a negare che il jihad abbia una qualche componente marziale, ridefinendo l'idea di un'attività puramente spirituale o sociale.
Per la maggior parte dei musulmani contemporanei questo allontanarsi dal vecchio significato del jihad è visto con distacco. Pertanto, essi non ritengono che i loro governanti siano bersagli del jihad né sono pronti a diventare quaccheri. Piuttosto, la classica nozione di jihad continua a echeggiare tra loro come notato nel 1993 da Alfred Morabia, un eminente specialista francese dell'argomento:
Il jihad offensivo e bellicoso, codificato dagli specialisti e dai teologi, non ha smesso di risvegliare un'eco nella coscienza musulmana individuale e collettiva. (…) Certo, gli apologeti contemporanei presentano un'immagine di questo obbligo religioso che ben si conforma alle norme contemporanee dei diritti umani (…) ma la gente non è convinta di questo. (…) La maggioranza schiacciante dei musulmani continua a essere sotto il dominio spirituale di una legge (…) il cui presupposto fondamentale è l'esigenza, per non dire la speranza, di vedere trionfare la Parola di Dio ovunque nel mondo.
In breve, il jihad come inteso in origine continua a essere una forza potente nel mondo musulmano, e questo arriva a spiegare l'immensa attrazione esercitata da una figura come Osama bin Laden subito dopo l'11 settembre 2001.
Contrariamente allo studente dell'ultimo anno di Harvard che assicurava agli astanti che "il jihad non è qualcosa che dovrebbe far sentire la gente a disagio", questo concetto causa e continua a causare non solo disagio ma anche sofferenze indicibili: nelle parole della specialista svizzera Bat Ye'or, "guerra, spoliazione, dhimmitudine [subordinazione] schiavitù e morte". Come rileva la stessa studiosa, i musulmani "hanno diritto come musulmani a dire che il jihad è giusto e spirituale", se desiderano farlo; ma allo stesso modo, un discorso veramente onesto dovrebbe dar voce agli innumerevoli "infedeli che sono stati e sono vittime del jihad" e che, non meno delle vittime del nazismo o del comunismo hanno "la loro personale opinione sul jihad che le ha prese di mira".
GLI ISLAMISTI CHE CERCANO di promuovere il loro programma negli ambienti occidentali, non musulmani – ad esempio, come lobbisti a Washington, D.C. – non possono divulgare le loro opinioni apertamente e continuano ad avere un ruolo nel gioco politico. Così per non destare paure e per non isolarsi, questi individui e organizzazioni in genere dissimulano la loro vera identità utilizzando un linguaggio moderato, almeno quando si rivolgono a un pubblico non musulmano. Quando si riferiscono al jihad, essi adottano la terminologia dei riformisti, presentando la guerra come decisamente meno importante dell'obiettivo della lotta interna e del miglioramento sociale. In questo modo, il Council on American-Islamic Relations (CAIR), il gruppo islamista più aggressivo e più in vista degli Stati Uniti, insiste sul fatto che il jihad "non significa 'guerra santa'" ma piuttosto è "un ampio concetto islamico che include la lotta contro le cattive inclinazioni individuali, la lotta per l'autodifesa sul campo di battaglia (ad esempio, avendo un esercito permanente per la difesa nazionale) o combattendo contro il tiranno o l'oppressione".
Questa specie di discorso è pura disinformazione e ricorda il linguaggio utilizzato dai gruppi di facciata sovietici nei decenni passati. Un esempio spettacolare di ciò, è stato offerto al processo contro John Walker Lindh, un ragazzo della contea di Marin che se n'è andato a ingaggiare un jihad a favore del regime dei Talebani in Afghanistan. Al momento dell'irrogazione della pena, ai primi dell'ottobre scorso, Lindh ha detto alla corte che, insieme alla "maggioranza dei musulmani del mondo intero" egli ha inteso il jihad come una serie di attività che vanno "dallo sforzarsi di superare i propri difetti, fino a proclamare la verità in circostanze avverse, e all'azione militare a difesa della giustizia".
Può sembrare incredibile che un jihadista catturato mentre combatteva in una guerra offensiva abbia offerto una definizione edulcorata delle sue azioni. Ma questo è in perfetta sintonia con la giustificazione del jihad divulgata dagli specialisti accademici, come pure dalle organizzazioni islamiste che si lanciano nelle pubbliche relazioni. Per usare il termine nella sua accezione ovvia, noi dobbiamo rivolgere l'attenzione agli islamisti non così impegnati. Questi islamisti parlano apertamente del jihad nel suo vero senso bellico. Ecco ad esempio Osama bin Laden che asserisce che Allah "ci ordina di condurre una lotta sacra, il jihad, per elevare la parola di Allah al di sopra delle parole degli infedeli". Ed è così che il mullah Muhmmad Omar, ex-leader del regime talebano, esorta i giovani musulmani: "Dirigetevi verso il jihad e preparate i vostri fucili".
È uno scandalo intellettuale che dall'11 settembre 2001 gli studiosi delle università americane abbiano rilasciato ripetutamente e in modo unanime delle dichiarazioni pubbliche che eludono o dissimulano il significato principale del jihad nella legislazione islamica e nella storia musulmana. È come se gli storici dell'Europa medievale negassero che la parola "crociata" abbia mai avuto delle connotazioni bellicose, riferendosi piuttosto a espressioni come "crociata contro la fame" o "crociata contro le droghe" per dimostrare che la parola implica uno sforzo per migliorare la società.
Fra gli specialisti accademici contemporanei che si sono dedicati a epurare questo concetto islamico fondamentale, molti senza dubbio agiscono così perché spinti dalla correttezza politica e dal desiderio dettato dal multiculturalismo di proteggere una civiltà non occidentale dalle critiche, facendola sembrare uguale alla nostra. Quanto agli islamisti presenti tra gli accademici, qualcuno almeno ha uno scopo differente: come il CAIR e altre organizzazioni simili, essi si sforzano di camuffare un concetto pericoloso presentandolo in termini accettabili in ambito accademico. I colleghi non musulmani che accettano questo inganno possono essere considerati dei dhimmi, un termine islamico che sta a indicare un cristiano o un ebreo che vive sotto la dominazione musulmana e che è tollerato a condizione che s'inginocchi e accetti la superiorità dell'Islam.
Come posso attestare, chi osa dissentire e proclamare la verità in materia di jihad incorre in una enorme censura – e non solo nelle università. Nel giugno di quest'anno, in un dibattito con un islamista avuto nel programma Nightline dell'ABC, io ho dichiarato: "Il fatto è che – storicamente parlando ed io parlo come uno storico – il jihad ha significato estendere il regno dell'Islam alla guerra armata". Più di recente, nel Lehrer NewsHour, un programma della PBS sulle presunte discriminazioni contro i musulmani negli Stati Uniti, è stato mostrato uno spezzone di un seminario role-playing, coordinato dal Muslim Public Affairs Council, in cui gli "attivisti" musulmani si esercitavano ad affrontare le critiche "ostili". Come parte di questo esercizio, nel seminario sono state mostrate le immagini del mio intervento al programma Nightline. E il commento su questa scena da parte della voce narrante della PBS è stato il seguente: "Gli islamisti musulmani sono infastiditi dalle critiche che condannano pubblicamente l'Islam come una religione violenta e malvagia". Noi siamo così arrivati al punto che il semplice fatto di dichiarare un fatto risaputo sull'Islam in un programma televisivo importante e finanziato con i fondi pubblici conferisce una reputazione di fanatico ostile.
GLI AMERICANI CHE LOTTANO per capire il senso della guerra che gli è stata dichiarata in nome del jihad, che siano decisori politici, giornalisti o cittadini, hanno tutte le ragioni per essere profondamente confusi riguardo a chi sia il loro nemico e quali siano i suoi obiettivi. Anche chi crede di sapere che jihad significa guerra santa è sensibile ai tentativi congiunti di studiosi e islamisti che brandiscono concetti come "opporsi all'apartheid e lavorare a favore dei diritti delle donne". Il risultato è offuscare la realtà, impedendo la possibilità di giungere a una chiara e onesta comprensione di chi e cosa stiamo combattendo e perché.
È per questo motivo che la falsificazione semi-generalizzata del jihad da parte degli studiosi accademici americani è una questione che ha delle profonde conseguenze. Ciò dovrebbe essere un motivo di preoccupazione urgente non solo per chi è legato o direttamente interessato alla vita accademica – docenti universitari, amministratori, ex-studenti rappresentanti federali e statali, genitori degli studenti e gli studenti stessi – ma per noi tutti.
[i] Per vedere ciò che è stato detto all'opinione pubblica ho passato in rassegna gli articoli d'opinione, le citazioni negli articoli pubblicati dai quotidiani e le interviste in televisione piuttosto che gli articoli pubblicati dalle pubblicazioni specializzate.
** La seguente analisi si basa su Douglas Streusand, "What Does Jihad Mean?", Middle East Quarterly, September 1997.