Il titolo riporta alla mente l'attentato al World Trade Center, ma è uno slogan pubblicitario. Per jihad, Barboza intende non una guerra approvata dalla legge islamica ma il cercare di essere un musulmano migliore. Il volume, infatti, è costituito da una cinquantina di ritratti basati sui racconti in prima persona fatti per lo più da musulmani americani, oltre a qualche intervista. L'autore, un americano convertitosi all'Islam, raggiunge il suo obiettivo di tastare "il polso della società islamica in America".
In questo ci riesce. Gli immigrati raccontano le sfide incontrate all'arrivo negli Stati Uniti e la seconda generazione rivela le sue confusioni. I convertiti spiegano che cosa li ha ripugnati degli Usa e che cosa li ha spinti verso l'Islam. Come gruppo, i convertiti danno l'impressione a un esterno di essere decisamente ignoranti (lo stesso Barboza definisce il venerdì "lo shabbat musulmano" e nutre la strana idea che la traduzione di Richard Burton de Le mille e una notte abbia "rieducato generazioni di occidentali riguardo all'Islam").
Forse le storie più interessanti sono quelle dei membri della Nazione dell'Islam che hanno trovato la via dell'Islam tradizionale. Ozier Muhammad, un nipote di Elijah Muhammad e ora fotografo del New York Times racconta come ha illecitamente adottato le pratiche tradizionali sotto la guida dei suoi parenti più anziani. "Ehi, era come se fossi rinato". E poi c'è chi è rimasto attaccato alle vecchie verità, come H. Nasif Mahmoud, un laureato della Harvard Law School e avvocato di diritto internazionale a Washington, fedele alla Nazione dell'Islam a causa del suo successo nel sollevare il morale nero.