Daniel Pipes, uno dei nostri maggiori esperti di Islam, ha fondato il Middle East Forum, di cui è diventato direttore nel 1994. Egli è nato nel 1949 ed è cresciuto a Cambridge, in Massachusetts. Suo padre, Richard Pipes, ha insegnato storia russa a Harvard e ora è professore emerito.
Daniel ha studiato storia araba e islamica e ha vissuto al Cairo per tre anni. La sua tesi di dottorato è diventata il suo primo libro intitolato Slave, Soldiers and Islam (1981). Poi, il suo interesse per argomenti puramente accademici si è ampliato includendo anche l'Islam moderno. Ha abbandonato l'insegnamento accademico perché, come ha detto in un'intervista rilasciata a Harvard Magazine, le sue sono "semplici idee politiche di un camionista, e non quelle complesse di un accademico".
Di recente, The American Spectator ha pubblicato un articolo ("Un palestinese in Texas", TAS, Novembre 2012) in cui Pipes racconta di essere stato citato in giudizio da un musulmano che in seguito si è suicidato. Pipes ha personalmente ricevuto delle minacce ma preferisce non parlare dei dettagli ad eccezione del fatto che è stata coinvolta l'autorità giudiziaria.
Ho intervistato Pipes poco prima di Natale, quando gli egiziani stavano votando per la nuova Costituzione. Ho iniziato dicendo che dagli attacchi dell'11 settembre il numero dei musulmani presenti negli Stati Uniti si è duplicato.
Daniel Pipes: La mia carriera si divide in due parti – prima e dopo l'11 settembre. Nella prima parte io ho cercato di mostrare che l'Islam ha a che vedere con le preoccupazioni politiche. A mio avviso, per capire i musulmani, occorre comprendere il ruolo dell'Islam nella loro vita. Ora questo sembra ovvio. Anzi, c'è una tendenza a dare troppa importanza all'Islam; a presumere che i musulmani siano dominati dal Corano e che siano i suoi automi – il che è esagerato. Non ci si può limitare a leggere il Corano per comprendere la vita musulmana. Bisogna prendere in considerazione la storia, le persone, l'economia, e così via dicendo.
TB: Lei ritiene che la rinascita dell'Islam sia una realtà?
DP: Sì. Mezzo secolo fa l'Islam era in una fase decrescente, l'applicazione delle sue leggi era sempre più remota ed era opinione comune che l'Islam, come le altre religioni, fosse in declino. Da allora, c'è stata una forte inversione, a mio avviso indiscutibile. Ora tutti parliamo di Islam e delle sue leggi.
TB: Allo stesso tempo, Lei ha sollevato una bizzarra questione: "L'Islam può sopravvivere all'islamismo?" Può spiegare questo?
DP: Io opero una distinzione tra Islam tradizionale e islamismo. L'islamismo è emerso nella sua forma moderna negli anni Venti ed è mosso dalla convinzione che i musulmani possono ancora essere forti e ricchi se osserveranno rigorosamente la legge islamica e nella sua interezza. Questa è una risposta al trauma dell'Islam moderno. Eppure, questo tipo di Islam sta facendo dei grossi danni alla fede, al punto che mi chiedo se l'Islam potrà mai riprendersi.
TB: Ci delinei il contesto storico.
DP: L'era moderna per i musulmani è iniziata nel 1798, con l'invasione di Napoleone dell'Egitto. I musulmani ebbero un grosso shock nel vedere come fossero evoluti i popoli dagli occhi blu del nord. È pressappoco come se gli eschimesi scendessero a sud a decimare gli occidentali, i quali si chiederebbero senza capire: "Chi sono quelle persone e come hanno potuto sconfiggerci?"
Visione immaginaria di Jean-León Gérôme di Napoleone davanti alla Sfinge. |
TB: E come hanno risposto?
DP: Negli ultimi duecento anni, i musulmani hanno fatto molti sforzi per capire che cosa non abbia funzionato. Essi si sono dati varie risposte. La prima ha rintracciato la causa nell'emulazione dell'Europa liberale – di Gran Bretagna e Francia – fino al 1920 circa. La seconda ha fatto riferimento a un'emulazione dell'Europa illiberale – di Germania e Russia – fino al 1970 circa. La terza risposta ha trovato una motivazione in ciò che si credeva fossero le fonti della forza islamica un millennio fa, ossia l'applicazione della legge islamica. Questo è l'islamismo. È un fenomeno moderno e fa dei musulmani il fulcro dei disordini mondiali.
TB: Ma è anche fonte di malessere?
DP: Ha degli effetti terribilmente deleteri sui musulmani. Molti di loro si allontanano dall'Islam. In Iran, ad esempio, c'è molta estraniazione dall'Islam a causa del governo islamista degli ultimi trent'anni.
TB: Accade anche altrove?
DP: Si hanno notizie, sopratutto dall'Algeria e dall'Iraq, di musulmani che si convertono al Cristianesimo. E in modo senza precedenti, gli ex-musulmani che vivono in Occidente si organizzano con l'obiettivo di diventare una forza politica. Credo che il primo tentativo del genere sia stato il Centraal Comité voor Ex-moslims nei Paesi Bassi ma ora tentativi di questo tipo sono un po' ovunque.
TB: Tuttavia, l'Islam dura da 1.500 anni.
DP: Sì, ma l'islamismo moderno esiste solo dagli anni Venti, e prevedo che continuerà a essere una forza che minaccia il mondo per non più di pochi decenni. I musulmani abiureranno la loro fede o semplicemente smetteranno di praticarla? Questo è quel genere di domande che, a mio avviso, saranno presto comuni e ordinarie.
TB: E quanto all'Islam negli Stati Uniti?
DP: A lungo termine, gli Stati Uniti potrebbero avvantaggiare enormemente l'Islam liberando la religione dalle costrizioni imposte dal governo e permettendole di evolversi in una direzione positiva e moderna. Questo, però, accadrà a lungo termine. In questo momento, i musulmani d'America sono vittime dell'influenza saudita e non solo, le loro istituzioni sono estremiste e le cose stanno andando in una direzione distruttiva. È altresì doloroso vedere come le istituzioni e i non-musulmani, in particolar modo quelli a sinistra, assecondino la cattiva condotta islamista.
TB: E come lo fanno?
DP: Beh, accendendo la televisione, recandosi in una classe di studenti, seguendo il lavoro dell'ACLU (l'Unione americana per le libertà civili) o del Southerny Poverty Law Center, si possono vedere le organizzazioni senza scopo di lucro e le istituzioni governative lavorare con gli islamisti, e contribuire a promuovere il programma islamista. La sinistra americana e gli islamisti sono d'accordo su ciò che a loro non piace – i conservatori – e, nonostante le profonde differenze, essi cooperano.
TB: Presumibilmente, alcuni musulmani qui in America si convertono ad altre religioni, esatto?
DP: Sì, è vero, si registrano dei casi di musulmani che abbracciano altre fedi religiose. E l'establishment musulmano di questo Paese è molto preoccupato per questo. Numericamente, però, non si tratta di cifre importanti.
TB: Quelli che si convertono non ne parlano molto?
DP: In alcuni casi lo fanno; approfittano delle libertà occidentali per parlare chiaro. Anche se queste sono delle eccezioni.
TB: Credo che il declino del Cristianesimo abbia incoraggiato l'Islam.
DP: È verissimo, come rivela il contrasto esistente tra l'Europa e gli Stati Uniti. L'esistenza di uno zoccolo duro della fede cristiana americana, non presente in Europa, implica che gli islamisti si sono comportati molto meglio negli Stati Uniti. Essi ravvisano l'importanza di una controforza cristiana.
TB: Prima, Lei ha citato l'Algeria. È un grande Stato musulmano di cui oggi non si sente parlare.
DP: Vent'anni fa l'Algeria era al centro dell'attenzione mondiale. Ora non più, anche se in Francia se ne parla ancora molto. L'Algeria è matura per lo stesso tipo di sconvolgimenti cui abbiamo assistito in altri Paesi nordafricani come la Tunisia, la Libia e l'Egitto. Penso che probabilmente ciò accadrà molto presto.
Un mese prima dell'attacco di Amenas io dissi : "L'Algeria è matura per lo stesso tipo di sconvolgimenti cui abbiamo assistito in altri Paesi nordafricani come la Tunisia, la Libia e l'Egitto. Penso che probabilmente accadrà molto presto". |
TB: E la Siria?
DP: Il potere di Assad diminuisce gradualmente e non so se il suo regime potrà durare a lungo.
TB: E gli Stati Uniti sarebbero coinvolti?
DP: No, gli americani non hanno nessun interesse in gioco e niente nella Costituzione statunitense ci chiede di farci coinvolgere in ogni conflitto straniero. Due forze abiette si uccidono a vicenda; basta guardare i video terribili in cui le due parti si torturano e si uccidono tra loro. Si ascolti anche ciò che dicono. Si tratta di una guerra civile che implica il male e il peggio. Non voglio che il governo americano sia coinvolto. Questo significherebbe dare un po' di responsabilità morale a ciò che emerge, che prevedo sarà molto ripugnante.
TB: Quindi Lei appoggia la posizione di Obama?
DP: Sì, anche se egli arriva a questa conclusione con molta più angoscia. Inoltre, sembra esserci un sostegno serio e clandestino da parte degli Usa alle forze ribelli. L'incontro dell'11 settembre a Bengasi tra l'ambasciatore turco e quello americano è stato molto curioso. Le loro sedi lavorative sono a Tripoli a centinaia di miglia da lì. E allora che cosa ci facevano a Bengasi? A quanto pare, erano lì per prendere accordi per un rifornimento di armi americane alla Siria attraverso la Turchia.
TB: Che importanza ha avuto Israele per la rinascita dell'Islam?
DP: Israele è un fattore importante nei Paesi vicini. Altrove, però, in Marocco, in Iran, in Malesia, ha meno importanza.
TB: Dalla "primavera araba" Israele sembra sempre più sotto assedio.
DP: Non proprio, non ancora, anche se a mio avviso lo sarà sempre più col passare del tempo. I suoi vicini sono talmente presi dai loro problemi che difficilmente prestano attenzione a Israele. Ma una volta che i Paesi vicini sistemeranno i propri affari, Israele molto probabilmente dovrà affrontare nuove difficoltà.
TB: Lei ha sollevato dei dubbi sul sostegno americano alla democrazia islamica, che sembra ingenuo.
DP: Gli Stati Uniti sono da un secolo i paladini della democrazia, da quando è stato enunciato il cosiddetto programma dei "Quattordici punti" di Wilson, ed è un meraviglioso patrimonio. Quando un americano viaggia per il mondo, si trova a visitare Paesi dove la sua nazione ha svolto un ruolo enormemente positivo, soprattutto nella democratizzazione del sistema. Noi naturalmente vogliamo estendere questo ai Paesi a maggioranza musulmana. Purtroppo, questi ultimi da qualche tempo offrono una spiacevole scelta tra dittatori brutali e avidi e islamisti eletti imbevuti di ideologia, estremisti e nemici. Non è una scelta che dovremmo accettare.
TB: E allora che cosa dovremmo fare?
DP: Io propongo tre semplici linee guida. Innanzitutto, bisogna opporsi sempre agli islamisti. Come i fascisti e i comunisti, essi sono il nemico totalitario, che abbiano la barba lunga come in Pakistan o indossino giacca e cravatta a Washington.
In secondo luogo, occorre sempre sostenere i laici, i moderni e i liberali che condividono le nostre idee. Essi guardano a noi per avere un sostegno morale e non solo; noi dovremmo essergli fedeli. Non sono forti e non possono presto assumere il potere in nessun luogo, ma rappresentano la speranza, offrendo l'unica prospettiva al mondo musulmano di fuga dalla triste dicotomia della dittatura o dell'estremismo.
In terzo luogo, e questo è il punto più difficile, occorre collaborare con i dittatori, ma per spingerli verso le riforme e l'apertura. Noi abbiamo bisogno dei Mubarak del mondo e questi hanno bisogno di noi. Benissimo, ma occorre incessantemente esercitare pressioni su di loro per migliorare il loro modo di governare. Se avessimo avviato questo processo con Abdullah Saleh dello Yemen nel 1978 o con Mubarak nel 1981, le cose avrebbero potuto essere ben differenti nel 2011. Ma non l'abbiamo fatto.
TB: L'Egitto potrebbe essere il banco di prova.
DP: Beh, è un po' tardi. Mohammed Morsi non è un dittatore avido ma è emerso dai Fratelli musulmani, e i suoi sforzi da quando è arrivato al potere sono puramente islamisti.
TB: Che ne dice delle recenti elezioni?
DP: Credo che in Egitto nessuna delle consultazioni elettorali e referendarie sia stata condotta secondo equità. Mi sorprende che i governi occidentali siano così ingenui su questo punto.
TB: Si potrebbe dire che abbiamo sostenuto l'elemento della democrazia a piazza Tahrir al Cairo. Non è vero?
DP: Sì, ed è giusto così. Le manifestazioni iniziali all'inizio del 2011 sono state condotte dai progressisti e dai laici che meritavano il sostegno degli Stati Uniti. Ma essi sono stati rapidamente messi da parte e Washington non gli ha prestato altra attenzione.
TB: Abbiamo fornito aiuti a Mubarak. È stata una pessima idea?
DP: Questo aiuto risale a circostanze del tutto diverse, quelle del trattato di pace tra Egitto e Israele del 1979 ed è diventato sempre più sbagliato. Quest'aiuto si sarebbe dovuto interrompere molto tempo fa. Più in generale, credo negli aiuti in caso di emergenza (viveri e coperte) e come incentivo, ma non per lo sviluppo economico. M'indigna che l'amministrazione Obama stia contemplando la possibilità di offrire aiuti, anche in armamenti, al governo Morsi.
L'aiuto americano all'Egitto risale a un'altra epoca – Anwar al-Sadat e Jimmy Carter nel 1979. |