Su un piano meramente pratico, Sharabi merita dei grandi elogi per la sua candida diagnosi della società araba; egli la definisce "per la maggior parte, un luogo culturalmente e politicamente desolato e oppressivo". Questo è il genere di analisi franca e coraggiosa di cui il Medio Oriente ha bisogno, in particolar modo dall'interno. Inoltre, il suo auspicare un cambiamento nei paesi arabofoni è tutto di guadagnato. Chi contesterebbe il suo appello a "contenere la violenza, a umanizzare le relazioni sociali, a liberalizzare la vita politica?" O il porre l'accento sulla necessità di ottenere i diritti umani e politici? O ancora una denuncia delle barbarie commesse in nome dell'Islam fondamentalista?
Il problema è che occorrono 150 pagine prima che Sharabi raggiunga queste conclusioni assai banali. La cosa peggiore è che egli vi arriva attraverso una teoria contorta, semi-marxista, "dell'egemonia della piccola borghesia" e del "discorso neopatriarcale". Nel corso della trattazione, l'autore tralascia i nomi di tutti i teorici di grido da Roland Barthes a Jörgen Habermas, con il solito inchino alle icone marxiste e weberiane. Sharabi spera che il suo libro stimolerà gli arabi a prendere delle misure per migliorare la loro condizione; ma la sua argomentazione astrusa e i suoi obiettivi superficiali rendono il raggiungimento di questi obiettivi assai dubbioso. Peggio ancora, egli non propone delle idee pratiche su come agire. Sarebbe stato molto meglio e più efficace omettere le verbose parti teoriche e sostituirle con qualche idea costruttiva su come raggiungere gli obiettivi lodevoli da lui esposti.