L'autrice, una profuga vietnamita sposata con un diplomatico norvegese, ha vissuto in Kuwait e ha fatto un buon uso della sua formazione teorica e della sua esperienza personale per scrivere un'analisi penetrante sulla condizione dei lavoratori immigrati del Kuwait. Facendo risalire l'attuale sistema alle sue radici storiche del periodo precedente al petrolio, la Longva mostra la continuità esistente fra i pescatori di perle sotto contratto del vecchio sistema e i domestici e gli autisti del sistema odierno. Ella decifra i segnali sociali dell'abbigliamento e arguisce che le tipiche vesti bianche portate dagli uomini kuwaitiani (dishdasha) inviano un segnale forte di emancipazione e potere sociale, perché esse sono quasi esclusivamente indossate dagli uomini kuwaitiani, la nobiltà reale del Paese.
La Longva descrive per sommi capi una struttura sociale che annovera sei gruppi principali: gli uomini kuwaitiani in testa, seguiti dalle donne kuwaitiane, e poi via via gli uomini arabi, le donne arabe, gli uomini asiatici e, alla fine, le donne asiatiche. Fatta eccezione per il primo e l'ultimo gruppo, tutti gli altri si trovano talvolta a ricoprire una posizione "maschile" (o superiore) e altre volte una "femminile". Simbolo di quest'ordine davvero strano è David, un simpatico indiano che lavora nel settore della lingerie femminile; la sua condizione inferiore lo rende competente per consigliare le donne ammantate di nero sui loro indumenti intimi – qualcosa d'inconcepibile da poter fare per un uomo kuwaitiano. Gli asiatici della classe media affermano il loro status ostentando i segni della loro ricchezza. La descrizione che la Longva fa del modo in cui un soggiorno temporaneo per fare soldi "sfuma e si fonde in un progetto vago e ampio, la cui fine è sempre più difficile da prevedere" riesce a cogliere abilmente il pathos che permea la condizione di lavoratori immigrati presi fra due culture, due paesi e due vite.