Gerges, docente al Sarah Lawrence College, ha scritto il primo lungo resoconto di quello che forse è il dibattito di politica estera più ideologico e più appassionante del nostro tempo in merito a come gli Stati Uniti dovrebbero rispondere all'islamismo. E lo fa in modo chiaro e ben documentato, dapprima soffermandosi sul dibattito intellettuale (tra le parti che lui definisce "confrontazionisti" e "accomodazionisti") per poi mostrare come il governo Usa spinga le due parti a esplicitare le loro posizioni. I confrontazionisti sono quelli, come Bernard Lewis, Martin Kramer e Charles Krauthammer che, scrive Gerges, reputano gli islamisti "intrinsecamente antidemocratici e profondamente antioccidentali". Gli accomodazionisti come John Esposito, Graham Fuller e Leon Hadar replicano dicendo che questi attributi riguardano elusivamente "una piccola frangia di violenti"e che il numero di gran lunga maggiore di chi aderisce alle forme moderate di islamismo è costituito da elementi pro-democratici e ambivalenti per ciò che concerne l'Occidente, che accettano alcune delle sue caratteristiche e ne rifiutano altre.
Rivolgendo l'attenzione alla politica americana, soprattutto all'era di Clinton, Gerges trova un paradosso: nel fare i discorsi, dal 1992 i portavoce americani proclamano all'unanimità l'approccio accomodazionista e mostrano di essere "culturalmente sensibili e politicamente corretti". Ma quando si tratta di formulare le politiche verso paesi e problemi specifici, Gerges intravede l'approccio confrontazionista in chi ricopre posti di comando, ispirati da "un profondo residuo di ambivalenza, scetticismo e sfiducia". Che sia l'Algeria, l'Egitto, il Sudan, l'Iran o l'Afghanistan, Washington si mostra riluttante a intraprendere con gli islamisti "un dialogo costruttivo" e preferisce sostenere gli sforzi di altri mediorientali (governi al potere, gruppi d'opposizione) che vogliono rovesciare quegli islamisti già al potere e reprimere quelli che non lo sono.
Qualcuno potrebbe rallegrarsi per questa conclusione, sollevato nel sapere che il governo americano non è così ingenuo come le sue dichiarazioni lascerebbero credere – ma non l'autore, che vede in questa contraddizione "una propaganda rumorosa per una guerra culturale e di civiltà".