Intervistato un anno fa da the Jewish Exponent, proprio alla vigilia della guerra con l'Iraq, osservai che la crisi del Kuwait "è l'evento [bellico] più importante dalla Seconda guerra mondiale. Possiamo solo iniziare a immaginare le conseguenze per ogni problema [internazionale]: dal petrolio al terrorismo".
Vecchie verità e strutture vetuste sono sembrate agonizzanti. Essendo la prima crisi che ha visto la Russia e l'America dalla stessa parte in quasi cinquant'anni, lo scontro con l'Iraq ha presagito una nuova era politica. Poiché i primi preparativi di guerra hanno reso evidente la minaccia di attacchi missilistici, lo scontro ha contraddistinto una nuova era militare. Tra le altre importanti caratteristiche: la coalizione multinazionale composta da trenta Paesi, la fine prevista della sindrome del Vietnam negli Stati Uniti e un forte segnale ai potenziali aggressori di tutto il mondo.
Per quanto riguarda il Medio Oriente, in particolare, tutto sembrava in continuo mutamento. Due Paesi hanno perso la sovranità nel giro di due mesi (il Libano è stato l'altro), i nemici sono diventati alleati e i grossi debiti sono spariti. L'affermazione della forza americana aveva così eliminato lo stigma di stretti legami con gli Stati Uniti poiché, per la prima volta, i Paesi arabi hanno mostrato con orgoglio i loro rapporti con gli Usa. Anche un anti-americano famoso come il siriano Hafez al-Assad si è unito alla coalizione guidata dagli americani; ma la cosa ancor più sorprendente è che le truppe siriane stazionano a fianco degli Usa in Arabia Saudita. L'antisionismo è scivolato ai margini, quando i Paesi arabi si sono concentrati sulle ostilità nel Golfo. I sauditi hanno abbandonato la loro ordinaria timidezza nella politica araba e hanno apertamente attaccato chi li ha abbandonati nel momento del bisogno. (Yasser Arafat, ad esempio, li ha definiti "quei pagliacci".) Conquista e occupazione hanno trasformato i playboy kuwaitiani in combattenti della resistenza, i diplomatici esitanti in alleati risoluti.
Ebbene, a un anno di distanza non sono così convinto di quest'affermazione da vigilia della guerra.
Naturalmente, l'operazione Tempesta del Deserto ha portato a degli sviluppi importanti in Medio Oriente. Il potere iracheno è scomparso da un giorno all'altro. I curdi sono sempre più autonomi. Gli arabi e gli israeliani s'incontrano abitualmente per parlare e l'opposizione a questi colloqui è minima. Ribaltando una politica tradizionale, i siriani sono disposti a incontrare ufficialmente gli israeliani e persino a pronunciare frasi come "terra in cambio di pace". Dopo settant'anni di negazionismo, i palestinesi hanno fatto le loro prime timide mosse verso il compromesso.
Ma questi non sono affatto dei cambiamenti clamorosi. Osserviamo che cosa non è successo. La coalizione contro l'Iraq non ha avviato una nuova era nelle relazioni tra gli Usa e l'Unione Sovietica: piuttosto, quest'ultima è scomparsa immediatamente. La coalizione ora sembra essere una cosa sola: qualcosa che ferma l'aggressione serba? La sindrome del Vietnam può essere più debole, ma non è sparita; e non è nemmeno così importante in un momento in cui il protezionismo economico è la questione chiave. Il dibattito sull'uso della forza da parte degli Usa non è cambiato più di tanto.
Il Medio Oriente continua a essere sorprendentemente quello che era. Saddam Hussein resta al potere, barbaro, truculento e disonesto come sempre. Tornati a casa, i kuwaitiani hanno ripreso il loro stile di vita antecedente all'invasione. I dirigenti dell'Olp non hanno imparato niente e non hanno dimenticato nulla. A parte i tentativi compiuti per ottenere il favore di Washington, il governo siriano resta quello di prima: costruendo arsenali, governando il Libano, cercando di dominare i palestinesi e trafficando in droga.
Complessivamente, la guerra ha dato pochi scossoni senza stimolare la serie di cambiamenti fondamentali che mi aspettavo.
Perché così pochi cambiamenti? In parte, questo ha a che fare con il crollo dell'Unione Sovietica. La crisi del Kuwait e la guerra contro l'Iraq sono quasi scomparse a causa della pressione esercitata da altri sviluppi. Il fatto che non ci siano stati dei reali cambiamenti è dovuto al lontano passato, e non alle immediate preoccupazioni odierne.
La natura del Medio Oriente, una regione con un'incorreggibile tendenza alla dominazione e alle lotte, ha altresì a che fare con la mancanza di cambiamenti. Questo è un luogo dove l'odio legato alle etnie e alla religione dura da generazioni; dove le passioni politiche prevalgono regolarmente sulle esigenze economiche; e dove gli imperativi dei regimi dittatoriali negano le tendenze democratiche e umane.
È anche una regione che marcia al suo ritmo ed è quasi immune da felici sviluppi globali come la democratizzazione, un maggiore rispetto dei diritti umani e un maggiore sbocco dei mercati. Lo stato di diritto resta un'eccezione, come pure la libertà di espressione e la crescita economica sostenuta.
Questa conclusione malinconica implica la necessità di essere cauti nel prevedere dei cambiamenti in Medio Oriente. La guerra del Kuwait non è l'unico evento transeunte. Il viaggio di Anwar as-Sadat a Gerusalemme non è riuscito a scuotere la regione come ci si aspettava, né l'ha fatto la guerra tra Iraq e Iran e nemmeno l'Intifada. Anche la rivoluzione iraniana, dopo tredici anni, ha un impatto minore di quello che poteva sembrare all'inizio. I dettagli cambiano ma l'immagine di base rimane sorprendentemente stagnante.
Gli americani dovrebbero imparare a mantenere delle aspirazioni modeste per ciò che concerne il Medio Oriente. Ad eccezione delle due democrazie mediorientali, la Turchia e Israele, Washington dovrebbe mantenere le distanze. Essere troppo coinvolti fa sì che i misfatti e i fallimenti degli altri diventino i nostri. La nostra volontà e i nostri mezzi sono limitati: probabilmente non potremo ricostruire l'Iraq, com'è successo per il Giappone e la Germania. Né il nostro esempio probabilmente prevarrà: gli egiziani e i sauditi hanno poco bisogno del nostro sistema politico.
Con questo non intendo dire che occorre il disimpegno, e men che meno l'isolazionismo. Come nel caso dell'aggressione irachena, il governo Usa dovrebbe usare la propria influenza per risolvere i problemi specifici: la sicurezza di Israele, la stabilità dei regimi arabi moderati, il libero flusso del petrolio e la soppressione del terrorismo. Ma Washington deve riconoscere i propri limiti e non credere che la regione sia soggetta a dei miglioramenti sulla falsariga americana.